Nonostante le dimensioni nel frattempo raggiunte, non vi è dubbio alcuno che il Monte dei Paschi di Siena rappresenti l’ultimo esempio di banca molto attenta alle esigenze del territorio senese, non indifferente alle esigenze degli abitanti della Toscana, ma ancora non del tutto consapevole di quel ruolo di banca nazionale che pure ha raggiunto da lungo tempo, una contraddizione destinata a divenire stridente dopo l’onerosissima e fulminea acquisizione di Antonveneta al prezzo record di nove miliardi di euro per una banca oramai lontana dai livelli di attività e radicamento vantati solo pochi anni orsono, peraltro privata di una importante partecipata bancaria, venduta a parte dall’abile Don Emilio Botin.
Quando mi sono ripetutamente occupato della questione, l’azione del gruppo senese quotava a un multiplo di quanto vale oggi, mentre l’assorbimento del patrimonio della Fondazione nella sua maggiore partecipata continua a mantenersi intorno alla stratosferica percentuale del 90 per cento, il che renderà molto problematico rispondere alle indiscrete ma puntuali domande contenute nella missiva ricevuta dal per la terza volta ministro italiano dell’Economia, Giulio Tremonti, una lettera circolare a tutte le fondazioni di origine bancaria che chiede risposte dettagliate su questioni quali i rischi finanziari, la redditività, l’eventuale utilizzo del fondo di stabilizzazione e via discorrendo, domande delle quali, almeno nel caso di Siena, conosce già, almeno per sommi capi, le risposte.
Come si sa, nella non troppo remota tentata scalata della Banca Nazionale del Lavoro da parte del rinomato duo Consorte-Sacchetti, con Caltagirone e furbetti del quartierino al seguito, Unipol si trovò in rotta di collisione proprio con il Monte dei Paschi di Siena e alcune importanti cooperative, il che ha poi portato a sciogliere i nodi societari che da tempo legavano le due entità, anche se, almeno limitandosi a vedere i corsi di borsa, non sta andando troppo bene neanche per Unipol Gruppo Finanziario, come da qualche tempo è stata ribattezzata la compagnia assicurativa di Via Stalingrado in quel di Bologna.
Una delle letture più interessanti della mia gioventù era intitolata Magnati e popolani nella Firenze dei Ciompi, un libro che mi fornì uno squarcio sul carattere particolare dei toscani, anche se devo dire che l’anno di studi trascorso in quella città nell’anno dell’alluvione mi fornì qualche impressione più di prima mano, per cui non trovo del tutto strana l’ostinazione dei contradaioli senesi a ritenere la banca fondata nel XV secolo un affare di loro esclusiva pertinenza, una convinzione alla quale l’impresa corsara del giovane avvocato Mussari, calabrese di nascita ma senese di adozione, ha inferto un colpo che credo proprio si rivelerà mortale, anche per la coincidenza della presenza, nell’azionariato e nel consiglio di amministrazione, di quello stesso Caltagirone che tanta parte ebbe nell’infrangere le ambizioni della Bilbao Vizcaya y Argentaria che BNL la voleva proprio tanto!
Quale potrebbe realisticamente essere la soluzione lo ho scritto tempo fa e continuo a essere convinto che il destino dei senesi e quello di Unipol torneranno a incontrarsi, anche a suggello del patto di non aggressione tra la Lega delle Cooperative e Berlusconi, ma che occorrerà per completare l’operazione la partecipazione di un importante gruppo creditizio francese che in Italia è oramai di casa, proprio attraverso quella BNL che tanti lutti addusse agli assicuratori bolognesi, conditio sine qua non perché la Fondazione di Rocca Sansedoni possa scendere, ricevute le opportune garanzie, a quel 30 per cento prescritto a suo tempo per legge da Tremonti, ma poi cancellato dal suo infido successore dopo l’agguato di Palazzo (Chigi) ordito ai danni di Giulio dalla strana coppia formata da Fini e Casini, complice l’assenza per grave malattia di Umberto Bossi che a Tremonti è legato da un patto di acciaio.
Non mi soffermo sulle caratteristiche tecniche connesse all’operazione da me soltanto, ovviamente, immaginata, se non per dire che sarebbero certamente molto più significative sul piano industriale di quelle che hanno caratterizzato ‘tutte’ le aggregazioni fatte sull’onda della paura degli azionisti stranieri e potrebbe anche rappresentare, alla luce degli ottimi rapporti tra berlusconi e Sarkozy, una valida compensazione della diluizione potenzialmente patita da Bollorè e compagni in Mediobanca e, di riflesso, in Generali, ove né Innominati, né Don Rodrighi di turno dovessero frapporre ostacoli ai promessi sposi Mediobanca e Unicredit Group!
Da tutto questo Ambaradan ai piani alti del sistema finanziario italiano, resterebbero al momento estranee le entità che, pur presenti tra i primi cinque gruppi bancari e pienamente ammesse al listino di Piazza Affari, continuano a definirsi di credito cooperativo, un nome che fa venire l’orticaria a Berlusconi e Tremonti e che, non del tutto a caso, l’ex segretario generale di Palazzo Chigi, poi divenuto presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, della stranezza si è lungamente occupato nella recente indagine conoscitiva sulla corporate governance di banche e compagnie di assicurazione, un testo che è stato opportunamente inviato, per le determinazioni del caso, a Governo e Parlamento e che prevede che quanto previsto per le piccole e medie banche popolari, o per le singole banche di credito cooperativo (già il discorso cambia, secondo l’Antitrust, per le federazioni regionali delle stesse BCC) non può valere per colossi del calibro di UBI Banca, Banco Popolare, Banca Popolare di Milano o Banca Popolare dell’Emilia Romagna.
Pur trovandoci in pieno mare in tempesta, non vi è dubbio che le eventuali modifiche sul piano legislativo e regolamentare riguardanti le banche popolari di maggiori dimensioni verranno precedute o seguite da ulteriori processi di aggregazione che dovrebbero ridurre almeno della metà il numero delle stesse, cosa peraltro già tentata in passato dalla BPER e dalla Banca Popolare di Milano, anche se non realizzata per lo sfilamento, in extremis, di una delle due entità coinvolte, anche se il recente cambiamento dello statuto della stessa, fortemente voluto dalla Banca d’Italia e il mutamento degli equilibri interni potrebbero favorire il riavvio di questa o di altra operazione di aggregazione, anche perché, essendo quattro le entità potenzialmente coinvolte, le combinazioni possibili possono essere le più svariate, sino a quella Superpopolare di cui qualcuno ha parlato in passato, un’entità di dimensioni talmente grandi che potrebbe tranquillamente permettersi di perdere i benefici derivanti dalle norme realtive al credito cooperativo e competere ad armi pari con gli altri colossi del credito.
Immaginando per un attimo di essere al giorno dopo della riorganizzazione in corso al vertice della classifica dei gruppi creditizi italiani, risulterebbe evidente che, senza necessariamente passare per alcuna nazionalizzazione, l’influenza del Governo sulle principali banche italiane potrebbe davvero definirsi compiuta e consentire più agevolmente la realizzazione di quei progetti relativi all’economia reale su cui mi soffermerò domani.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .