Mentre i banchieri americani ancora piangono la dipartita dal ministero del Tesoro del loro ex (?) collega Hank Paulson, uno di cui si potevano davvero fidare, ci mancava solo la nuova esternazione del dr. Doom, alias Nouriel Roubini, inizialmente irriso al pari di una moderna Cassandra dei mercati finanziari, ma poi acclamato a furor di popolo come il guru della tempesta perfetta oramai entrata nel suo ventesimo mese di vita.
Ma cosa ha detto stavolta Nouriel per fare arrabbiare così tanto i depressi banchieri statunitensi più o meno globali? Semplicemente che la strada maestra per uscire dal meltdown attuale sui mercati finanziari è data dalla nazionalizzazione delle maggiori banche di quel paese, sì proprio quelle sei entità che fondano la propria sicumera nel mai tanto attuale too big to fail, e che, anzi, per rafforzare il concetto hanno fatto, almeno le quattro tra di loro che non avevano la status di Investment Banks, letteralmente incetta di altre banche di grandi dimensioni, al punto da vantare complessivamente attivi (si fa per dire) superiori allo stesso prodotto lordo a stelle e strisce.
In questa corsa al gigantismo difensivo, Citigroup e Wells Fargo sono persino giunte a disputarsi le spoglie di Wachovia Bank, la quarta banca al dettaglio degli States, non perché fosse realmente un affare, ma per il semplicissimo motivo che sarebbe stato difficile per il Governo, anche per quello faticosamente formato da Barack Obama, non tenere conto delle dimensioni raggiunte dal vincitore della disfida, così come del personale aggregato al netto dei soliti e spesso feroci tagli dell’organico successivi ad acquisizioni di queste dimensioni, disfida poi vinta dalla banca erede della società specializzata in diligenze e pony express, mentre Citigroup si consolava con 50 miliardi di aiuti diretti pubblici e con l’ottenimento della garanzia statale per centinaia di miliardi di titoli più o meno tossici della finanza strutturata.
Dichiarando inefficaci e fallimentari le altre strade proposte e che hanno allo stato molte più probabilità di essere messe in pratica da Geithner e i suoi consiglieri, l’economista più inviso ai banchieri, sostiene che la cosa migliore è nazionalizzare le banche, ripulirle (non si capisce se solo nella qualità dell’attivo o anche in quella del top management) per poi rivenderle ai privati, anche perché le tre soluzioni applicate o in via di realizzazione assomiglierebbero troppo da vicino alla fallimentare gestione del problema delle banche giapponesi che è universalmente giudicata una delle principali ragioni del decennio di stagnazione dell’economia del paese del Sol Levante, una stagnazione che, peraltro, sembra ben lungi dall’essere terminata e che certo non può rappresentare un modello per quella che, volenti o nolenti, resta pur sempre la locomotiva dell’economia mondiale!
Come dare torto alle tesi di Rubini dopo che il fondamentalista cristiano e assertore convinto del libero mercato, George W. Bush ha nazionalizzato senza quasi battere ciglio entità come Fannie Mae e Freddie Mac caratterizzate da un passivo di poco inferiore al debito pubblico degli stessi Stati Uniti d’America, o il maggior colosso assicurativo mondiale, quella AIG che si era dilettata più del dovuto a impegnarsi nel micidiale mercato delle scommesse, quei Credit Default Swaps che pesano più o meno quanto i titoli della finanza strutturata?
L’economista ribelle agli schemi molto embedded dei suoi colleghi e della maggior parte dei giornalisti e dei commentatori embedded ai desideri di Big Finance, ha previsto anche tutte le obiezioni che potevano essere mosse alla sua proposta, quale quella relativo all’altissimo numero di banche e banchette operanti negli Stati Uniti, la maggior parte delle quali, secondo lui, contano pressoché come il due di coppe quando si gioca a bastoni, anche alla luce della concentrazione sui sei istituti sopravvissuti agli alti marosi della tempesta perfetta di cui di diceva di sopra.
Delle obiezioni teoriche basate sui fallimentari presupposti tutti ideologici e mosse da quella sparuta pattuglia di fondamentalisti del neoliberismo non vi è più di tanto da preoccuparsi, anche perché è stato loro caldamente suggerito di evitare di esprimere in pubblico le loro idee, consiglio applicabile anche a riunioni in sedi come quelle del Rotary Club o del Lion’s, ancor più sconsigliabili nell’attuale congiuntura di un pub o di un bar dove le loro argomentazioni almeno potrebbero essere scambiate per lo sproloquio di un ubriaco.
Ho stampato proprio ieri mattina la classifica di Forbes sui primi quattrocento miliardari americani e quella, a livello mondiale, su tutti coloro che vantano un patrimonio di almeno un miliardo di dollari, ovviamente riferite ai soli patrimoni dichiarati e, quindi, al netto di quel po’ po’ di roba nascosta nei paradisi fiscali o quella montagna di ricchezza che è il provento dei regimi dittatoriali, del narcotraffico e del riciclaggio del denaro sporco delle varie mafie esistenti sul pianeta, una lettura che consentirebbe a ognuno di formarsi due opinioni, la prima legata alla davvero iniqua distribuzione del reddito e della ricchezza finanziaria, la seconda sulla relatività dei fenomeni, in quanto quasi tutte quelle cifre andrebbero, nella migliore delle ipotesi, dimezzate stando ai livelli raggiunti dagli indici azionari delle borse di tutto il mondo, o ridotte a un decimo come nel caso dei nuovi ricchi russi.
Ma se questa è l’unica soluzione efficace ed efficiente per le banche a stelle e strisce, cosa dire di quelle europee, con riferimento ovviamente a quelle 15-20 banche di dimensione e operatività più o meno globale, tenendo, peraltro, conto, che i loro attivi cumulati superano i PIL dei rispettivi paesi in misura molto più rilevante di quanto accade negli Stati Uniti d’America?
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ .