giovedì 31 gennaio 2008

Se Bernanke scambia le cause con gli effetti


Del tutto incurante della moltitudine di voci qualificate che chiedono, al fine di ripristinare quella dose minima di fiducia senza la quale la profonda crisi finanziaria in corso non potrà trovare soluzione, Ben Bernanke e la stragrande maggioranza dei suoi colleghi aventi diritto di voto nel Federal Open Market Committee della Federal Reserve (il voto si è risolto in un sonoro 9 a 1) hanno deciso ancora una volta di premiare il cosiddetto moral hazard ascrivibile alla maggior parte della moltitudine di entità che hanno operato, e stanno operando, in un modo che definire spregiudicato è veramente un eufemismo, dando agli stessi un’altra dose di quella droga che è rappresentata da una misura dei tassi di interesse di riferimento che si avvicina ormai ad un livello nullo se non negativo in termini reali.

Ricordo, infatti, che gli ultimi dati sull’inflazione statunitense indicano che, nell'ultimo trimestre del 2007, il CPI non depurato (e perché poi lo si dovrebbe fare, come si è autorevolmente chiesto di recente uno dei tanti premi Nobel per l’economia che vive ed insegna negli USA?) è balzato al 2,7 per cento, ma anche quello cosiddetto ex food and energy si colloca ormai al 2,6 per cento, elementi giudicati dal tutto ininfluenti dai decision maker della Fed, che, nel volgere di soli otto giorni, hanno operato un taglio del tasso sui Fed Funds di 125 punti base, portandolo dal 5,25 per cento di appena cinque mesi orsono al 3 per cento attuale, mentre una variazione di analoga dimensione ha riguardato, sempre nei cinque mesi trascorsi, il tasso ufficiale di sconto, oggi al 3,50 per cento, un tasso che, è bene ricordarlo, fa riferimento ad un tipo di operazione che era ormai scomparsa, sino al 9 agosto scorso, dalle tecnicalità utilizzate dalle banche statunitensi.

A chi segue attentamente il decorso della tempesta perfetta, non è sfuggito che uno dei motivi alla base del fallimento di quel SIV dei SIV tanto caro al ministro del Tesoro e sino a due anni orsono numero uno incontrastato di Goldman Sachs, Henry Paulson, quel MLEC imposto a forza alle recalcitranti banche USA, è dato proprio dal fatto che, grazie all’allargamento delle maglie quantitative e qualitative relative allo sconto presso la Fed, svariate decine di miliardi di dollari di titoli della finanza strutturata sono diventati appannaggio pressoché permanente della Fed che, grazie ai rating irrealistici attribuiti a questa vera e propria montagna di spazzatura, ha tolto roventi castagne dal fuoco dai bilanci e dalle poste off balance sheet delle principali banche made in USA.

Come capita di fronte a difficili scelte politiche, scelte che impongono spesso di turarsi il naso in vista di un fine superiore, comprendo perfettamente le ragioni che sono alla base di quel "sono disposto a tutto" pur di impedire il crack del sistema pubblicamente rivendicato dall’oscuro professore di economia che si è trovato nella scomoda posizione di numero uno della Fed quando tutto andava ancora bene e si era alquanto inconsapevolmente seduti su svariate e gigantesche bolle speculative che hanno avuto il torto di scoppiare in modo pressoché contemporaneo, ma quello che veramente trovo inaccettabile e che non si espliciti il fatto che l’obiettivo principale è quello di favorire, spesso a spese ed a danno dei cittadini e dei contribuenti statunitensi, un bailout di dimensioni gigantesche di un sistema finanziario che, come sostiene Nicolas Sarkozy, uno che di queste cose se ne intende, è letteralmente impazzito, travolto dagli animal spirits dei suoi protagonisti, a loro volta travolti da un mix di avidità, paura ed incompetenza come non si era visto dai tempi non certo invidiabili della Grande Depressione.

Ma il vero motivo alla base della mia critica nei confronti dell’operato della Fed di Bernanke, così come di una buona parte dell’esperienza di Greenspan prima di lui, è data dal fatto che non solo ci si pone sistematicamente dietro la curva dei rendimenti, ma che vi è, almeno a giudicare da come si opera sugli effetti, una totale assenza di analisi delle vere cause della tempesta perfetta, cause che hanno a che fare con i comportamenti degli attori del mercato finanziario, del modello di finanziamento dei consumi e degli investimenti e in quel modello originate to distribuite così caro alle banche globali, a prescindere dal paese in cui sono basate, nonché a quel legame perverso tra risultati di breve se non di brevissimo periodo e le remunerazioni dei top manager, argomento questo ultimo sul quale, seppure con un ritardo pluridecennale, ha finalmente deciso, come titolano i giornali, di accendere un opportuno faro la statunitense Securities and Exchange Commission.

D’altra parte non è un caso se le indagini ormai molto avanzate del Federal Bureau of Investigations sui comportamenti dei principali protagonisti del mercato creditizio, con particolare riferimento al disastrato settore del mortgage, stanno incentrandosi sulle 14 principali entità operanti nel settore, avendo, a solo titolo di esempio, ad oggetto mostri sacri come Goldman Sachs e Morgan Stanley, indagini, lo ricordo di passata, che non sono solo foriere di eventuali danni sul piano reputazionale, ma che potrebbero avere anche conseguenze economiche, penali ed amministrative pesantissime per le banche o le finanziarie che dovessero essere ritenute colpevoli di reati tutt’altro che lievi, ma che divengono ancora più pesanti ove a commetterli sono aziende che basano parte delle loro speranze di sopravvivenza sulla fiducia dei risparmiatori e degli investitori di tutto il mondo.

Non sottovaluteri, fossi al posto dei vertici dei colossi della finanza globale basati od operanti negli Stati Uniti d’America, il surriscaldamento del clima politico derivante dalla più appassionante corsa per la nomination alla candidatura per le elezioni USA degli ultimi decenni, ma, in particolare, non prenderei alla leggera le tesi di Mc Cain per i repubblicani e di entrambi i candidati ancora in corsa per i democratici sul legame perverso esistito e tuttora esistente tra l’amministrazione Bush ed il potere economico in generale e quello di banche e compagnie di assicurazione in particolare, così come non sottovaluterei le terapie che si impegnano ad adpttare per spezzare questo intreccio che, pur con accenti diversi, questi tre candidati stanno ripetendo, quasi fosse un mantra ipnotico, in tutti i loro innumerevoli comizi.

Lasciando per un attimo il suolo statunitense, ritengo necessario soffermarmi sulle prospettive della Société Générale, il cui consiglio di amministrazione ieri, pur confermando la fiducia all’attuale numero uno Daniel Bouton, gratificato peraltro dall'affetto di centinaia di suoi collaboratori, ha, tuttavia, affidato ad un comitato composto da tre tra i suoi più prestigiosi consiglieri indipendenti il potere decisionale sulle eventuali proposte che perverranno dall’esterno per l’eventuale acquisizione della banca, un’acquisizione che, se prevarrà l’orientamento del governo francese, verrà effettuata da una o più banche francesi, anche se già arrivano da Bruxelles gli strepiti e gli alti lai contro la posizione di Sarkozy e dei suoi ministri, una posizione giudicata troppo protezionistica.

Nel frattempo le banche italiane, continuano ad essere, o a sembrare, alquanto al riparo dai marosi della tempesta perfetta, anche se gli sviluppi giudiziari relativi agli scandali occorsi negli anni passati e le ispezioni in corso da parte della Vigilanza della Banca d’Italia sulle vicende più recenti e sulla governance di alcune importanti banche popolari non consentono sonni del tutto tranquilli ad un buon numero di banchieri nostrani.

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