La crescita del GDP statunitense nel secondo trimestre ha segnalato, nella prima delle tre letture che verranno come sempre fornite dall’ente statistico preposto, una variazione annualizzata dell’1,9 per cento, mentre è stato rivisto al ribasso quella relativa al primo trimestre che è stata ora definitivamente cifrata allo 0,9 per cento (ricordo che il dato annualizzato indica la variazione rispetto al trimestre precedente moltiplicata per quattro, per cui la variazione effettiva nel secondo trimestre è stata dello 0,475 per cento, mentre nel primo quarto dell’anno si è fermata allo 0,225).
La delusione degli operatori è stata molto forte, in quanto si è scaricato, nel periodo considerato, l’impatto della restituzione fiscale decisa da Bush e Paulson ed approvata in modo bipartisan dal Congresso, un rimborso che è stato erogato in maggio e che ha messo a disposizione dei singoli 600 dollari, mentre alle coppie sono andati 1.200 dollari, somme che, come molti avevano previsto, sono andate solo in minima parte ai consumi, venendo nella maggior parte dei casi destinate a tamponare l’outstanding delle carte di credito o delle tante altre forme di indebitamento cui fanno ricorso le cicale statunitensi da qualche tempo forzate ad essere più simili alle formichine europee.
Non era, quindi, un caso se il consensus degli analisti aveva previsto una crescita molto più rilevante, per quanto drogata da un intervento esogeno costato centinaia di miliardi di dollari, e che vedeva una crescita annualizzata in ogni caso non inferiore al 2,3-2,4 per cento (che nella migliore delle ipotesi avrebbe rappresentato una variazione trimestrale secca non superiore allo 0,6 per cento), in quanto l’analisi era basata su uno stato delle finanze delle famiglie e dei single statunitensi che non vuole in alcun modo prendere in considerazione la pervasività ed intensità del fenomeno dell’indebitamento complessivamente inteso, a sua volta pesantemente influenzata dal fatto che il vincolo di bilancio non ha mai rappresentato un problema né per i consumatori più consumatori del pianeta, né per la nazione che presenta un indebitamento federale effettivo (includendo cioè i 5.200 miliardi di dollari di GSE di Fannie Mae e Freddie Mac ed il cosiddetto debito previdenziale), un deficit federale oramai giunto a livelli stellari ed un deficit strutturale della bilancia commerciale che da anni viaggia su una media mensile di 60 miliardi di dollari, per non parlare poi del livello catastrofico della posizione netta sull’estero.
Mi scuso per essermi lasciato prendere la mano dalla analisi fondamentale, ma è certo che se, oltre a rappresentare la maggiore piazza finanziaria del mondo e, almeno al momento, l’unica vera superpotenza politicamente e militarmente intesa, gli Stati Uniti d’America fossero una nazione normale inserita in un mondo regolato da regole sistemiche molto più simmetriche delle attuali, potremmo tranquillamente prevedere l’affissione di un cartello posto ai cancelli dell’”azienda USA” con su scritto “chiusa per fallimento”, mentre analoga affissione dovrebbe riguardare le singole e molteplici entità pubbliche che compongono lo stato federale, così come sarebbe finalmente giunta l’ora che le normalmente severissime entità sopranazionali scaturite dalla conferenza di Bretton Woods applicassero anche al paese che le ospita e le controlla le regole draconiane e procicliche imposte alla maggior parte dei paesi del mondo quando incorsero in squilibri finanziari neanche lontanamente paragonabili a quelli che caratterizzano da decenni gli States.
Pur sapendo benissimo che quello esposto sopra rappresenta quello che potrebbe essere definito un periodo ipotetico dell’irrealtà, mi permetto di osservare molto sommessamente che uno squilibrio continuato ed aggravato di queste dimensioni ha svolto un ruolo tutt’altro che marginale nella costruzione delle innumerevoli bolle speculative in pieno processo di sgonfiamento più o meno traumatico, così come ha giocato in modo determinante nella costruzione della montagna altissima di titoli della finanza strutturata il cui impossibile ed ordinato smaltimento è di fatto alla base dell’avvio della tempesta perfetta, una tempesta che non si concluderà se non quando, in un modo o in un altro, si sarà determinato un avvicinamento tra il valore dell’immensa ricchezza finanziaria ospitata dal pianeta ed i valori, peraltro in rapida contrazione, dei flussi di valore aggiunto annualmente realizzati.
Lo stesso concetto può essere efficacemente espresso dicendo che quello che deve alquanto inevitabilmente accadere è che vi dovrà essere una maggiore corrispondenza tra il valor degli stock di ricchezza finanziaria ed il valore degli “impianti” intesi in senso lato dell’azienda Terra, valori che, a causa di una vera e propria moltiplicazione dei pani e dei pesci avvenuta negli ultimi venticinque anni, divergono per diverse decine di migliaia di miliardi di dollari, il che, finché la maggior parte degli assett è, appunto, espressa in dollari statunitensi, potrebbe anche essere in larga misura realizzata portando bruscamente, come avvenne ai tempi del vertice dell’allora G3 al Plaza di New York, che autorizzò di fatto la maggiore svalutazione del dollaro nei confronti del marco tedesco e dello yen giapponese, con un salto che polverizzò pressoché istantaneamente una porzione significativa della montagna di attività espresse in dollari.
E’ vero che il mondo di oggi è molto più complicato di quello in cui si svolse quell’importante summit tra tre sole nazioni, così come è ancora più articolato di quel ferragosto del 1971, quando il presidente Richard Nixon annunciò urbi et orbi, ed a mercati opportunamente chiusi, che la favola della convertibilità del dollaro in oro al valore di 35 dollari per oncia andava bene per gli uomini- bambini del secondo dopoguerra, ma non era certo adatta agli scafati adulti degli appena iniziati anni Settanta, decisione che, insieme alla guerra dello Yom Kippur, ebbe un’influenza tutt’altro che secondaria nei due shock petroliferi intervenuti nel decennio e nelle drammatiche conseguenze inflazionistiche determinate da quel repentino mutamento dei rapporti di forza a livello planetario tra paesi produttori e paesi consumatori di greggio, effetti meno forti per gli Stati Uniti d’America che, come ama spesso ripetere George W Bush, hanno il privilegio di giocare entrambi i ruoli in commedia.
Quello che mi ha spinto, nei primi giorni di settembre del 2007, a dare vita all’avventura editoriale del Diario della crisi finanziaria è stata proprio la consapevolezza che il giocatolo fabbricato trai boschi che circondavano l’hotel che ospitò i lavori della conferenza di Bretton Woods mentre ancora infuriavano i combattimenti della seconda guerra mondiale, giocattolo peraltro rappezzato nei decenni successivi più e più volte, si era definitivamente rotto il 9 agosto dello stesso anno e che, in un modo o nell’altro, i veri decision makers della finanza mondiale ed i loro manutengoli sarebbero stati chiamati a trovare il modo per scaricare il peso degli squilibri creati da un ordine economico internazionale che era esso stesso basato su presupposti asimmetrici e forieri di squilibri sui detentori dei titoli rappresentativi del debito, in questo caso senza tenere conto della maggiore o minore sofisticazione degli strumenti del debito stessi.
In altri termini, era già chiaro allora a molti che la tempesta perfetta si sarebbe esaurita soltanto una volta raggiunto l’obiettivo di far pagare ai detentori della ricchezza finanziaria un’inedita ed aggiornata tassa sul macinato!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.