Quando ho iniziato a scrivere il Diario della crisi finanziaria nel mese di settembre del 2007, non avevo assolutamente idea che mi sarei ritrovato a redigere la puntata che avrebbe celebrato il primo anniversario della tempesta perfetta, ad un anno esatto da quel 9 agosto del 2007 che registrò il primo blocco della liquidità interbancaria mai registrato dalla fine del secondo conflitto mondiale, un compleanno che rischia, inoltre, di non essere l’unico, in quanto proprio in questi giorni stanno emergendo rilevanti novità riguardanti la distribuzione delle perdite tra i diversi protagonisti del mercato finanziario globale.
Come i meno distratti tra i miei pochi ma affezionati lettori ben sanno, nella revisione dell’outlook del Fondo Monetario Internazionale diffusa a metà aprile, le perdite finali legate alla crisi finanziaria venivano stimate in 945 miliardi di dollari, ma la vera sorpresa era rappresentata dal fatto che quasi due terzi di questa somma veniva attribuita ai fondi di investimento ed ai fondi pensione, mentre le banche di ogni ordine e grado se la cavavano con 280 miliardi di dollari, una ripartizione che indicava come, ancora una volta, le banche di investimento e quelle più o meno globali fossero riuscite a traslare la maggior parte dei rischi verso gli investitori istituzionali e, in misura minore, verso gli investitori individuali.
Il bello sta nel fatto che ciò era in larga misura non solo verosimile ma anche vero, se non che, come si suol dire, il diavolo fa le pentole ma raramente è in grado di fare anche i coperchi, come è ben dimostrato dal successo dell’iniziativa giudiziaria del nuovo sceriffo di New York, Andrew Cuomo, il giovane procuratore, sinora più noto per essere il figlio dell’ex Governatore dello Stato di New York che per i suoi successi nell’agone giudiziario, che ha letteralmente messo in un angolo le Investment Banks e le grandi banche commerciali statunitensi e globali, ree, secondo il capo di imputazione, di aver venduto 330 miliardi di dollari di titoli della finanza strutturata quando era già noto da mesi che si trattava di roba che scottava maledettamente.
Non è, peraltro, un caso, se l’altro ieri, appena è stato reso noto il raggiungimento di un accordo raggiunto tra la procura ed il colosso Citigroup, un accordo che impegna la banca al riacquisto della carta venduta per la bella somma di 7,5 miliardi di dollari, le azioni della stragrande maggioranza delle banche di ogni ordine e grado hanno registrato veri e propri tonfi, quasi impensabili alla luce del fatto che sono ancora in vigore le prescrizioni volute da Effe O Ixs in persona e che impediscono di vendere allo scoperto i titoli di ben diciannove tra le maggiori entità finanziarie operanti nel mercato finanziario statunitense.
Con il trascorrere delle ore, lo sconcerto degli operatori e degli analisti si è accresciuto quando si è saputo che Citi si era anche impegnata a fornire liquidità agli investitori istituzionali esclusi dal rimborso automatico e che anche Merrill Lynch si impegnava a riacquistare titoli per 10 miliardi di dollari ed a finanziare i malcapitati fondi di investimento ed i fondi pensione per una somma pressappoco equivalente.
Tutti hanno compreso in un lampo che il pacco confezionato sino a febbraio nelle cosiddette auction rate securities rischiava seriamente di tradursi in un boomerang dagli effetti disastrosi sui conti già malandati delle principali entità creditizie globali, per non parlare degli altrettanto disastrosi effetti sulla già compromessa reputazione delle Investment Banks e delle banche più o meno globali che si erano veemente dichiarate innocenti rispetto alle accuse mosse loro da Cuomo e riprese da una folta schiera di suoi colleghi operanti in diversi Stati, professioni di innocenza reiterate anche contestualmente ai deal comunicati e all’irrogazione di pesanti sanzioni.
Come era largamente prevedibile, ai due accordi sottoscritti dai vertici di Citi e di Merrill ha fatto ieri prontamente seguito l’impegno del colosso creditizio extracomunitario UBS che, secondo un comunicato dai toni trionfali emesse dalle autorità del Massachussetts, a riacquistare titoli per la sostanziosa cifra di 19,4 miliardi di dollari, mentre non è stato quantificato il finanziamento a favore degli investitori istituzionali.
Non mi interessa inseguire le voci che vedono le altre banche fare la fila per precipitarsi a raggiungere accordi analoghi nelle diverse procure che hanno messo sotto accusa i loro comportamenti nei mesi passati, perché ritengo molto più importante sottolineare come, con questa ondata di rimborsi, le quote relative dei 1.300-1.400 miliardi di dollari di perdite al momento ipotizzate dovrebbero più o meno ribaltarsi rispetto a quelle fornite dagli economisti del FMI appena quattro mesi orsono.
Alla luce delle ultime svendite di titoli della finanza strutturata effettuate da Merrill Lynch è altrettanto evidente che le centinaia di miliardi di titoli forzosamente riacquistati dalle banche si tradurranno in un mare di perdite che vanno ad aggiungersi a quelle derivanti dai lunghissimi elenchi di titoli della specie già classificati come Level 3 dalle stesse banche, titoli in larga misura derivanti dal consolidamento altrettanto forzoso dei Conduit e dei SIV tra le attività, si fa per dire, delle banche.
Poiché piove sempre sul bagnato, c’è poco da stupirsi se, dopo la brutta sorpresa riservata da Freddie Mac ai propri azionisti, ieri anche Fannie Mae ha reso noto di aver perso, nel secondo trimestre di questo realmente orribile 2008, 2,3 miliardi di dollari, una perdita che ha superato di tre volte le già pessimistiche stime degli analisti interpellati da Thomson Financial, un uno-due che riporta all’ordine del giorno la sorte delle due entità semmipubbliche che, sia detto per inciso, hanno emesso titoli di debito per 5.200 miliardi di dollari che, per una sorta di superstizione, sono stati assimilati ai Treasury Bonds, ma che, a differenza di questi ultimi, non sono garantiti che dai loro emittenti.
Producendosi in uno di quei movimenti irrazionali ed alquanto incomprensibili, il mercato azionario statunitense sembrava ieri, nonostante le pessime notizie riportate sopra, colto improvvisamente da uno stato di grazia che ha spinto decisamente verso l’alto i tre principali listini azionari della piazza newyorkese, un rialzo che non sembra assolutamente trovare una valida giustificazione nell’ulteriore scivolone del prezzo del greggio, giunto ieri a toccare i 116 dollari al barile, o nel repentino, ma a mio modesto avviso alquanto effimero, rafforzamento della valuta statunitense, passata in meno di 24 ore da 1,54 a 1,50 contro l’euro, un rafforzamento molto più sensibile di quello verificatosi contro lo yen, in quanto il cambio contro yen continua a mantenersi intorno ai 110 yen per dollaro.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno, informando che gli stessi sono stampabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.