martedì 19 agosto 2008

Chi salverà Fannie Mae e Freddie Mac?


La difficoltà delle Investment banks e delle banche commerciali più o meno globali di fare i conti con la “zavorra” rappresentata dai titoli della finanza strutturata ancora pesantemente sul loro groppone ha determinato un vero e proprio tracollo del comparto finanziario della borsa statunitense, con flessioni delle quotazioni estremamente significative per le prime otto entità delle due specie considerate, ma ancora più pesanti per le alquanto disastrate Fannie Mae e Freddie Mac per le quali oramai gli operatori e gli analisti non vedono altra strada che quella di un salvataggio che non può che assumere le caratteristiche di una nazionalizzazione palese o mascherata.

Ovviamente, qualunque sia la soluzione che verrà adottata agli sventurati azionisti vecchie nuovi delle due entità semipubbliche chiamate a rendere possibile, oggi, grazie al provvedimento bipartisan appena licenziato dal Congresso con la benedizione di Bush, per un importo ancora maggiore che si pone di poco al di sopra dei 600 mila dollari, resterà in mano poco più di un pugno di mosche, il che era già chiarissimo prima della metà di luglio, ma che non si è tradotto nella più che prevedibile liquefazione delle relative quotazioni solo per la mossa ben poco ortodossa di Effe O Ixs volta essenzialmente a proteggere Fannie Mae e Freddie Mac, anche se, per rendere meno spudorata l’operazione, si era deciso di estendere ad altre diciassette entità finanziarie statunitensi e qualche banca straniera la diga contro l’ondata ribassista i corso.

Come ho avuto modo di chiarire nei giorni scorsi, l’aspetto più incredibile della decisione della Securities and Exchange Commission è stato rappresentato dal fatto che ha dato bellamente modo a David Einhorn ed al nutrito drappello di miliardari che gli si sono messi in scia di divenire rialzisti alla velocità della luce, lucrando sui più che certi e clamorosi rialzi che avrebbero riguardato le quotazioni delle azioni delle entità finanziarie proditoriamente sottratte alla furia del mercato, fornendo così agli stessi un maggior volume di fuoco quando, come si è puntualmente verificato, il provvedimento sarebbe alfine decaduto e senza troppi rimpianti da parte degli infuriati operatori che giurano di non avere mai visto nulla di simile nella, almeno per alcuni di loro, lunga ed onorata carriera.

Con l’inflazione ormai alle stelle ed i tassi di interesse ufficiali letteralmente alle stalle, non si tratta più di discutere sul se la Federal Reserve, seppur molto obtorto collo, alzerà i tassi, ma solo di quando una simile eventualità avrà a concretizzarsi, anche perché sono certo che Bernspan ed i suoi complici non vedono l’ora di fare bella figura con poco, fingendo di fare la faccia feroce nei confronti delle Investment Banks e delle maggiori banche commerciali statunitensi, che certamente nutrono al momento preoccupazioni molto più grosse e di tutt’altro genere, come ben testimoniato dal povero Richard Flud di Lehman Brothers che sa benissimo che difficilmente spunterà per i 29 miliardi di titoli della finanza strutturata che ha messo in vendita qualcosa di più dei 22 centesimi per dollaro ricavati dal suo collega Thain di Merrill Lynch che, poche settimane orsono, ha deciso di aprire le danze accettando un simile prezzo, subendo, per di più, l’onta di vedersi costretto a finanziare l’acquirente ed a fornirgli, per soprammercato, un solido paracadute ove le cose andassero peggio di quanto previsto.

E’ molto strano che nessuno, ma proprio nessuno, osi chiedere come mai gli stessi titoli che vengono venduti a prezzi di assoluto saldo continuino ad essere accettati pressoché alla pari nella ampia discarica a cielo aperto provvidenzialmente tenuta ancora aperta dalle donne e dagli uomini della Fed di New York e posti a “garanzia” di prestiti la cui durata è stata altrettanto provvidenzialmente portata ad 84 giorni.

Non scommetterei un soldo bucato sulla sopravvivenza di Flud al micidiale uno-due rappresentato dal certo esito della sua svendita ed dall’altrettanto certo esito delle sempre più imperiose richieste avanzate dallo sceriffo Cuomo e da uno stuolo di procuratori distrettuali, richieste volte a costringere anche Lehman, come tutte le altre banche americane e straniere coinvolte, a restituire ai loro clienti i 330 miliardi di dollari pagati per la carta straccia loro venduta nelle auction-term securities terminate solo all’inizio di marzo per la semplice ragione che il relativo mercato era divenuto del tutto illiquido, eventualità ben nota ai ben informati che se ne erano prontamente liberati, come era peraltro accaduto nell’estate del 2007 con gli hedge funds facenti capo alla poi defunta Bear Stearns.

Nelle precedenti due puntate, ho cercato di mettere in luce le ambasce nelle quali si dibattono le Investment Banks e le banche più o meno globali poste al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico, anche se temo che tutto questo discutere di modelli, di salvataggi/nazionalizzazioni molto poco probabili, così come le mosse sempre più scomposte del duo Bernspan-Paulson non rappresentino che una densa cortina fumogena volta a distrarre l’attenzione del pubblico pagante dal vero problema che, oggi come un anno fa, continua a d essere rappresentato da quella sorta di ricerca del Santo Graal che rischia di rivelarsi altrettanto infruttuosa di quanto lo fu la ricerca dei cavalieri della tavola rotonda, in quanto ritengo molto improbabile che esista qualcuno disposto a farsi avanti per smaltire l’enorme montagna di titoli della finanza strutturata che è stata appena scalfita dalle centinaia di miliardi di dollari di svalutazioni e messe a perdita effettuati dalle banche di ogni ordine e rango.

Non sono assolutamente in grado di prevedere quando i bravi e disciplinati risparmiatori statunitensi smetteranno di fidarsi delle panzane ad un tanto al chilo allegramente propinate loro dai banchieri, dal governo e dagli alquanto distratti regolatori e decideranno di mettersi in fila davanti agli sportelli per riportare l’outstanding del loro deposito all’ammontare coperto dalla Federal Deposit Insurance Corporation, anche perché è difficile credere che sarà possibile trovare soluzioni accomodanti quando dalla decina di banchette finite a zampe all’aria si dovesse passare ai possibili default di banche di grandi, se non grandissime, dimensioni.

Non voglio, peraltro, credere alle voci incontrollate circolanti su blog e siti poco ortodossi che sostengono che, in realtà, il fenomeno è già iniziato in sordina da parte di quanti hanno o pensano di avere già capito come andrà a finire e cercano di non restare senza sedia quando l’orchestra finirà all’improvviso di suonare!

Come ben sanno i miei pochi ma affezionati lettori, non presto molta attenzione all’andamento delle borse di tutto il mondo, in quanto ritengo che una crisi di liquidità quale quella pressoché ininterrottamente in corso dal 9 agosto dello scorso anno sfoghi di più su altri ed a volte insospettabili versanti, ma non riesco a restare indifferente al tracollo delle quotazioni di ieri di Fannie Mae e Freddie Mac, giunte a perdere un quarto del loro valore in una sola seduta!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno, informando che gli stessi sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.