I discorsi tenuti da Bernspan, Mario Draghi ed il fermo warning inviato a quattro banche globali dall’ente preposto alla vigilanza sul mercato finanziario britannico, la FSA, daranno molto da pensare in questo ennesimo week end di lavoro ai top bankers operanti al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico, anche se ieri il mercato si è riconsolato con l’aglietto della previsione di una possibile minore inflazione statunitense nel 2009 formulata da Bernspan per dare vita ad un rally di non eccezionale entità, anche perché gli analisti che si sono soffermati sul resto del discorso hanno provveduto a gettare secchiate di acqua gelida sui facili entusiasmi degli operatori che non vedevano l’ora di rafforzarsi nella loro convinzione che la loro Fed non li avrebbe traditi alzando, come dovrebbe assolutamente fare, i tassi ufficiali ormai largamente negativi ove espressi in termini reali.
Non occupandomi assolutamente della sempre più evidente schizofrenia dei mercati, sono molto più interessato a quanto hanno detto nell’abituale meeting estivo organizzato dalla Federal Reserve, un Bernspan che per poche ore ha riassunto l’identità del professor Benjamin Bernanke, noto studioso del prestigioso ateneo di Princeton e considerato il massimo esperto delle crisi finanziarie del passato, ed il professor Mario Draghi, un uomo che, pur ricoprendo contemporaneamente il ruolo di Governatore della Banca d’Italia e quello di presidente del Financial Stability Forum, non ha sinora dato segno di soffrire della sindrome di sdoppiamento della personalità che caratterizza, invece, l’attuale numero uno della Fed.
Come hanno notato gli economisti molto più di quanto abbiano avuto voglia e forse capacità gli irruenti e molto nervosi operatori, entrambi i banchieri centrali hanno sottolineato l’inusualità e l’estrema virulenza della tempesta perfetta in corso ad oltre dodici mesi dal suo avvio, una crisi che non avrà, né potrebbe ragionevolmente avere, esiti indolori sul sistema finanziario globale e sulle entità che a vario titolo ne sono protagoniste, effetti collaterali talmente preoccupanti che condizionano e condizioneranno anche nel futuro prevedibile la politica monetaria, anche se i due appartengono a due differenti scuole di pensiero e di azione, quella americana, tutta protesa a salvare il salvabile in quel di Wall Street, e quella europea ben testimoniata da una BCE il cui presidente ed i cui membri alquanto neotemplari del board non riescono a dormire sonni tranquilli in assenza di una distanza di sicurezza tra il tasso di intervento ed il tasso tendenziale di inflazione.
Questo non significa che, come presidente del FSF, Draghi non comprenda le ragioni che spingono Bernspan ed i suoi complici operanti nel Federal Open Market Committee a fare il possibile e l’impossibile per evitare un default sistemico del sistema finanziario statunitense, adottando una serie di misure del tutto innovative della prassi consolidata e spingendosi a dare una robusta mano anche a quelle banche di investimento non sottoposte, almeno per ora, alla sua vigilanza, rinviando sine die i proclami di facciata sulla ferma persecuzione dei comportamenti che denotano un evidente moral hazard o la messa in soffitta del ben poco liberista principio che stabilisce che non è possibile lasciare fallire chi è caratterizzato da dimensioni troppo rilevanti.
Certo, Draghi non ha rinunciato a tenere la sua lezioncina sul principio che la ferma azione di contrasto nei confronti dell’inflazione attraverso una ferma e decisa politica monetaria rappresenta il miglior contributo alla stabilità del sistema finanziario, così come non ha evitato di enunciare che, anche sulla base delle raccomandazioni e delle conseguenti misure regolamentari previste da quel rapporto finale che il comitato di saggi da lui presieduto ha completato ma non ancora ufficialmente presentato, nel futuro avremo un miglior prezzamento del rischio ed un minor livello di leverage rispetto ai multipli folli rispetto al capitale abituali negli anni e nei decenni passati.
Ma poiché il nostro è uomo di mondo ed ha conosciuto dall’interno della più grande Investment Bank del mondo, Goldman Sachs, il grande casinò a cielo aperto che è oramai divenuto il mondo della finanza, non può che comprendere e persino accettare il principio del primum vivere deinde filosofari, un principio che è rimasto pressoché immutato dall’impero romano del passato a quello americano del presente e del futuro, ma, insieme a Bernspan ed agli altri loro colleghi a capo delle banche centrali dei paesi maggiormente industrializzati, non può che incrociare le dita e sperare che i riottosi e molto riluttanti investitori tornino a fidarsi di quelle banche più o meno globali che, nel frattempo, insistono a non fidarsi l’una dell’altra.
Preoccupa molto la lettera inviata dall’FSA, l’ente preposto alla vigilanza sulle varie entità operanti nel mercato finanziario britannico, a Merrill Lynch, Lehman Brothers, Morgan Stanley e Credit Suisse per metterle in guardia dal tagliare il personale anche nelle attività di back office, in particolare in quelle che svolgono un’indispensabile funzione di controllo nei confronti di quanto avviene nella prima linea operativa, anche perché, in base ad accurate ispezioni effettuate in questi ultimi mesi, è emerso che il livello di questi controlli è gia valutato come non sempre soddisfacente dallo stesso FSA.
Si è appreso ieri che anche Merrill Lynch ha accettato di sottoscrivere un accordo con la Securities and Exchange Commission che prevede l’obbligo per la banca di investimento di riacquistare i titoli venduti agli investitori istituzionali ed ai risparmiatori/investitori nelle ormai famigerate auction-term securities svoltesi sino alla fine del mese di febbraio di questo veramente orribile 2008 per un importo che va dai 10 ai 12 miliardi di dollari ed a pagare una multa di 125 mila miliardi di dollari ai vari Stati che avevano fatto ricorso alla SEC, mentre, come nel caso delle sette banche che hanno già aderito ad accordi similari, non è chiaro se i diversi procuratori distrettuali lasceranno cadere le imputazioni penali a carico dei responsabili delle diverse banche di investimento e banche più o meno globali coinvolte in questo affare da 330 miliardi di dollari e se saranno o meno soggetti a sanzioni pecuniarie da parte della stessa SEC.
Mentre questo, come tutti i fine settimana che il cielo manderà in terra nel prossimo futuro potrebbe rappresentare il momento buono per trovare una soluzione a carico dei contribuenti per le disastrate Fannie Mae e Freddie Mac e, dopo il fermo rifiuto opposto dall’interpellato Warren Buffett, semba tramontare l’ipotesi di una partecipazione da parte di investitori privati al salvataggio delle due entità semipubbliche, l’ipotesi di un acquisto di Lehman Brothers da parte della Korea Development Bank ha tenuto banco venerdì sul mercato azionari statunitense, spingendo le molto depresse quotazioni della più piccola ma molto blasonata Investment Bank verso un rialzo a due cifre che poi si è ridotto in chiusura ad un molto più modesto 4 per cento, peraltro ulteriormente limito nell’after hours, anche perché, in una fase così turbolenta, solo un annuncio ufficiale da parte coreana sarebbe in grado di fugare i dubbi sulla fattibilità dell’operazione che segue di poche ore il rifiuto da parte di investitori istituzionali dello stesso paese asiatico a sostenere finaziariamente la stessa Lehman.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.