Ieri, dopo tante amare sorprese, è giunta una notizia positiva dalla economia reale degli Stati Uniti d’America, in quanto in luglio, per il secondo mese consecutivo, l’indice che misura gli ordinativi di beni durevoli ha registrato un sensibile rialzo dell’1,3 per cento, incremento identico a quello rivisto per il mese di giugno che era stato in precedenza stimato in un già lusinghiero +0,8 per cento.
Una volta tanto pressoché unanime, il giudizio degli analisti su questo doppio rimbalzo degli ordinativi all’industria manifatturiera statunitense attribuisce al valore molto depresso del dollaro, ben testimoniato dall’andamento dell’indice trade weighted, che, almeno sino al rimbalzo alquanto drogato registrato di recente, vedeva lo squagliamento del biglietto verde nei confronti di tutte le valute, eccettuata solo la pizza di fango del Camerun cara ai comici della fortunata trasmissione Avanzi, che ha certamente contribuito al forte incremento dell’inflazione importata, ma ha fornito una spinta molto energica alle esportazioni di tutti quei prodotti nei quali le fabbriche americane mantengono una posizione competitiva, quali l’informatica “pesante”, l’aereonautica civile (beneficiata da un vero rimbalzo rispetto al relativo flop di giugno) e le tante altre produzioni che non sono state massicciamente delocalizzate nelle aree del mondo che spesso esportano prodotti prevalentemente made in USA anche se le lavorazioni finali sono effettuate in Asia, in Europa o in paesi appartenenti ad altri continenti.
Eh già, perché studi recenti hanno consentito di scoprire che una parte tutt’altro che marginale dell’export di qualità cinese, indiano, tedesco, così come quello proveniente da numerosi altri paesi caratterizzati da una solida posizione strutturale nei conti con l’estero, è caratterizzato da un contenuto di lavorazioni effettuate negli USA e poi assemblate nel paese di turno che va dal 20 all’80 per cento, il che conferma che l’apparente supinità che ha caratterizzato le diverse amministrazioni succedutesi negli ultimi venti anni negli Stati Uniti d’America nei confronti dei giganteschi volumi di export provenienti dal Giappone prima, dalla Cina e l’India poi, per non parlare dell’avanzo strutturale che caratterizza importanti paesi europei come la Germania e la Francia, un export che molto spesso generava lauti profitti per le multinazionali americane che, direttamente od indirettamente, controllano le aziende esportatrici di quei paesi o forniscono loro i semilavorati, per non parlare poi di quella vera e propria supremazia mondiale nel software ed in misura significativa dell’hardware, in buona parte dell’industria farmaceutica, ma anche in settori tradizionali come la siderurgia, la chimica fine e quella pesante e via discorrendo.
E’ certo tragicamente vero che da decenni l’industria stelle e strisce ha realizzato, o ha avuto larga parte, in quella divisione internazionale del lavoro che ha visto le lavorazioni più inquinanti e meno avanzate prendere la strada dell’Europa prima, del Giappone, delle tigri asiatiche e, infine, di quella che viene definita Cindia, una delocalizzazione che spesso ha visto lo smantellamento e la successiva riedificazione di acciaierie, raffinerie, impianti chimici, fabbriche di automobili un tempo operanti negli Stati Uniti d’America in tante altre nazioni del mondo, spesso accolte molto volentieri dai paesi destinatari di tali produzioni, in un processo che ha visto l’esportazione del lavoro più sporco verso aree che, tempo per tempo, avevano una sensibilità ambientale molto scarsa per il semplicissimo motivo che avevano un disperato bisogno dell’occupazione, dei redditi e delle tasse derivanti da quelle lavorazioni senza troppe storie importate.
Non so se Marcello De Cecco sottoscriverebbe oggi quanto ebbe a dire nei primi anni Settanta in un suo applauditissimo intervento alla Facoltà di Economia dell’Università di Napoli, quando, usando l’efficacissima formula della “fabbrica del formaggio verde”, spiegava le cose che ho appena ricordato, anche perché da giovane economista aveva avuto modo di vedere come il Piano Marshall fosse servito per dare un grande impulso all’export delle merci e dello stesso modello americano, ma anche ad acquisire una parte non marginale dell’industria manifatturiera di un’Europa che era stata teatro delle maggiori tragedie della seconda guerra mondiale che aveva, invece, e come era già accaduto nella prima di queste tragedie dell’umanità nel XX secolo, visto del tutto intatti i suoi opifici e visto prosperare quello che era ed in buona parte resta il motore dell’America, e, cioè, la sua florida, modernissima e molto sussidiata agricoltura, un settore dell’economia che vede sì e no un quattro per cento della popolazione impiegata, ma che continua ad assicurare livelli di produzione veramente eccezionali.
Tutto questo non sarebbe stato assolutamente possibile se le idee dell’allora ministro del Tesoro statunitense White non avessero prevalso su quelle dell’economista britannico John Maynard Keynes in quella Conferenza svoltasi in quel di Bretton Woods a conflitto non ancora concluso, una Conferenza che sancì l’avvento di quel dollar exchange standard che, in assenza di ogni forma di meccanismo riequilibratore degli squilibri strutturali, ha consentito la supremazia dell’economia degli Stati Uniti d’America e la sua veramente poco costosa acquisizione di parti importanti degli apparati produttivi europei e giapponesi che rappresentò il vero motore sussidiario dell’economia a stelle e strisce e diede un impulso senza precedenti alla creazione dei conglomerati multinazionali che traevano contemporaneamente profitto dai giganteschi flussi di export e di import che sempre più spesso facevano loro capo.
E’ molto difficile, d’altro canto, immaginare che l’unica potenza militare uscita vincitrice dal sanguinosissimo conflitto durato quasi sei anni, ma molti di meno per gli USA, avrebbe consentito gli export strutturali europei, giapponesi, coreani, cinesi ed indiani, così come la gigantesca riallocazione delle riserve valutarie a favore delle summenzionate nazioni, se non avesse avuto un più che cospicuo tornaconto da quella divisione internazionale del lavoro che le consentiva di guadagnare dai ciclici cambi di fronte dei surplus commerciali, poi divenuti un fenomeno a senso unico che ha visto le altre nazioni accettare con minore o maggiore grado di soddisfazione di vendere impianti e merci in cambio di biglietti di colore verde dal valore sempre più opinabile e sempre più incerto, surplus dei quali venivano accusati dal presidente o dal ministro del Tesoro USA di turno che volutamente ignorava che tutto questo alimentava i profitti di imprese saldamente basate in territori americano e che, finché reggeva il gigantesco bluff, era sufficiente stampare carta moneta per mantenere un tenore di vita dei cittadini statunitensi del tutto al di sopra dei loro meriti e del tutto indifferente a qualsivoglia ragione di giustizia sociale planetaria.
Tutto questo durò, incredibile a dirsi, ben venticinque anni, sino a che il nazionalista ed imprevedibile generale Charles De Gaulle non decise di andare a vedere il bluff americano e chiese ed ottenne che un miliardo di dollari si trasformasse in oro allo stupefacente valore di 35 dollari per oncia, costtringendo Richard Nixon ad abolire, il 15 agosto del 1971, quella convertibilità del dollaro in oro che del dollar exchange standard era il pilastro. Il resto, come si suol dire, è Storia!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.