giovedì 30 ottobre 2008

Bernspan ha ormai vuotato il caricatore!


Con una decisione ampiamente prevista e del tutto scontata dal mercato, Bernspan ed i suoi soci assisi ai loro scranni nel Federal Open Market Committee hanno compiuto il loro ennesimo, e ragionevolmente, almeno, ultimo, taglio del tasso sui Fed Funds portato alla risibile entità dell’uno per cento, come già prima di lui fece il suo Maestro Alan Greenspan nel 2004, un tasso che è in realtà negativo, ove espresso in termini reali, di quasi tre punti percentuali, un livello nominale che, comunque, prima di Bernspan e Greenspan non era mai stato toccato dal lontano 1958, ai tempi della presidenza del generale Dwight Eisenhower.

Il FOMC ha, allo stesso tempo, ridotto di mezzo punto anche il tasso ufficiale di sconto, portandolo dall’1,75 all’1,25 per cento, un tasso relativo ad un’operazione pressoché scomparsa nei decenni precedenti lo scoppio della tempesta perfetta e che ora rappresenta l’unico biglietto che le entità finanziarie devono pagare per depositare per 84 giorni i loro titoli tossici, quasi alla pari e ricevendo in cambio denaro sonante, presso l’ampia discarica aperta dalla Fed di New York.

A parziale rettifica di quanto dicevo nell’incipit, la credibilità di Bernspan ha oramai toccato un livello così basso che non mancano osservatori ed analisti che non ritengono questa la fine della corsa al ribasso dei tassi di riferimento, ritenendo in totale buona fede che, se la situazione lo richiederà, si potrà anche scendere più in basso, in perfetta analogia con quanto da lunghissimo tempo è costretta a fare la Bank of Japan da lunghissimo tempo, senza peraltro che la sua ostinazione nel tenere i tassi allo zero virgola abbia prodotto alcun beneficio al gigante asiatico malato che, se ha segnalato negli ultimi anni qualche segnale di miglioramento, lo ha molto probabilmente fatto più per remissione spontanea di sintomi che per la terapia seguita dalla banca centrale nipponica, una terapia che, anzi, viene consigliata agli studenti di economia come esempio pratico di quella trappola della liquidità a suo tempo descritta da John Maynard Keynes.

Talmente scontata era la decisione della Fed, preceduta dal mini taglio dei tassi cinesi e da quelli norvegesi e certamente seguita a breve da quelli applicati nell’area dell’euro e in Gran Bretagna, che la prima risposta dei mercati azionari è stata la brusca interruzione del rally verificatosi nella seduta di martedì, sulla scia peraltro di quanto era avvenuto nei mercati azionari di quasi tutto il mondo, Piazza Affari esclusa ma che si è rifatta oggi con una crescita degli indici principali a due cifre.

Al di là dei movimenti davvero schizofrenici dei principali indici borsistici mondiali, resta il dato che, a parte la Banca Centrale Europea e la Bank of England, non esistono ulteriori margini di una riduzione significativa dei tassi di interesse né negli Stati Uniti, né in Giappone (anche se chi si spinge a prevedere un ritorno del tasso ufficiale di sconto dal risibile 0,50 per cento attuale al francamente ridicolo 0,25 mantenuto e del tutto inutilmente per lunghissimo tempo), mentre altrettanto senza ulteriori munizioni appare lo sforzo congiunto delle banche centrali dei maggiori paesi industrializzati di sostenere il dollaro a valori francamente irrealistici rispetto ai fondamentali, uno sforzo che, peraltro, non avrebbe prodotto assolutamente nulla se il panic selling avvenuto all over the world non avesse spinto massicce iniezioni di capitale dai paesi di più recente industrializzazione verso quegli Stati Uniti d’America che, a torto a ragione, sono considerati, insieme alla Svizzera, un porto sicuro in tempi di tempesta, figuriamoci quando, come ora, siamo nel pieno di una tempesta perfetta entrata con grande vigore nel quindicesimo mese di vita!

Ma, come mi sforzo di ripetere da oltre un anno, il problema non è tanto né sui mercati azionari, né su quelli valutari, ma continua ad essere quello del modello di sviluppo seguito tenacemente dalle banche di ogni ordine e grado e dalle altre entità a pieno titolo protagoniste del mercato finanziario globale, quel modello comunemente definito originate and distribuite che continua ad essere inceppato dal 9 agosto del 2007, portando così inevitabilmente ad una situazione dei relativi sotto mercati che è stato giustamente etichettato con termini quali congelato, del tutto il liquido, in una parola, completamente paralizzato e caratterizzato da ammontari dal valore nominale di parecchie decine di migliaia di miliardi di dollari, valori che, in caso di tentato realizzo, non vanno, per alcune tipologie di titoli della finanza strutturata, oltre i dieci centesimi per dollaro, meno della metà di quel prezzo spuntato qualche mese fa da John Thain per quei 30 miliardi di dollari di titoli altrettanto tossici (la definizione è dello stesso Thain) di quelli che oggi qualcuno si ostina a cercare disperatamente di vendere.

Certo la dotazione complessiva di 4 mila miliardi di dollari circa che i governi e le banche centrali hanno deciso di assegnare ai piani di salvataggio nazionali non rappresenta uno sforzo da sottovalutare, soprattutto da quando si è pressoché unanimemente deciso di destinarli all’ingresso di capitali pubblici nelle banche ed alla garanzia dell’umanamente garantibile in termini di depositi ed altri strumenti di raccolta, ma è altrettanto evidente che si tratta di di ben poca cosa in caso di default contemporaneo di una parte delle maggiori entità protagoniste del mercato finanziario, né va sottovalutata la recente stima della bank of England che vede a 2.800 miliardi di dollari le perdite complessive legate alla tempesta perfetta.

Già, perché, alla fine della fiera, il problema dei problemi continua a risiedere nell’entità del conto finale da pagare e, soprattutto, dall’entità delle perdite attribuibili alle banche, agli investitori istituzionali, agli hedge fund, ai carry traders, alle imprese non finanziarie ed ai contribuenti, così come è altrettanto chiaro che sulla suddivisione degli oneri realtivi si scatenerà una guerra sanguinosa e prolungata che utilizzerà tutti gli strumenti, più o meno leciti e più o meno trasparenti, utilizzabili dai diversi portatori di interessi coinvolti in questa pesantissima spartizione.

Al di là della pesantezza degli oneri che ogni categoria sarà chiamata a sopportare, non va mai sottovalutata l’ipotesi che la situazione non si incarti ulteriormente e non venga di fatto azzerato il valore di quella montagna di titoli della finanza strutturata che, sempre all’oramai irrealistico valore nominale, rappresenta più o meno metà del valore complessivo della ricchezza finanziaria a livello globale, stimata quest’ultima in 150 mila miliardi di dollari.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.