Anche se vi sono ancora dubbi sulla tempistica dell’andata a regime del piano di salvataggio di Wall Street, anche per i condizionamenti dovuti al rush finale della gara per le presidenziali e per il rinnovo del Congresso, quello che è certo è che le banche di ogni ordine e grado e gli altri protagonisti del mercato finanziario statunitense stanno facendo e rifacendo i conti e valutano le loro prospettive mettendo già nel conto l’aiuto proveniente dalla mano pubblica che, con ogni probabilità, valuterà i titoli tossici in loro possesso molto, ma molto più generosamente di quanto sia disposto a fare il quasi inesistente mercato esistente per questo tipo di titoli prodotti a suo tempo dagli apprendisti stregoni delle defunte Investment Banks e delle alquanto boccheggianti divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali.
Uno dei primi effetti, a provvedimento non ancora approvato, è stato l’accendersi di una furiosa disputa tra Vikram Pandit, il giovane Chief Executive Officer indiano di Citigroup, ed i vertici di Wells Fargo e della preda ambita da entrambe le banche, la tecnicamente fallita Wachovia Bank, la quarta banca commerciale statunitense, sovraccarica di sportelli bancari preziosi in una fase in cui si getta alle ortiche il wholesale banking per rifugiarsi nel molto più sicuro retail banking che degli sportelli ha, ovviamente, bisogno come del pane.
Come ho già avuto modo di ricordare nella puntata precedente, Wells Fargo, con una mossa fulminea ed inaspettata a moltiplicato per più di sette volte la molto avara offerta di Citigroup per Wachovia, 15,1 miliardi di dollari contro i poco più di 2 messi sul piatto da Pandit, ma con un’ulteriore e molto significativa differenza consistente nel fatto che mentre i banchieri eredi del traffico delle diligenze nel selvaggio West non chiedono in nessun modo di applicare le esauste casse della Federal Deposit Insurance Corporation, quelli di Citigroup hanno preteso ed ottenuto che la FDIC si facesse carico di tutte le perdite eccedenti i 42 miliardi di dollari, una differenza di non poco conto con i tempi che tirano e che, insieme all’entusiasmo dei disperati azionisti di Wachovia, dovrebbe far pendere senza dubbio alcuno la bilancia verso l’interessante seppure un po’ tardiva contro offerta.
Con una mossa un po’ disperata ma ampiamente prevedibile, un temibile schieramento legale ha ottenuto che un giudice bloccasse temporaneamente il deal tra Wells Fargo e Wachovia, ma sarà molto difficile che, nella valutazione di merito, Citigroup non resti con le pive nel sacco o, cosa per niente esclusa, decida finalmente di presentare un’offerta degna di questo nome aumentando significativamente la posta, cosa nella quale ripongono le loro speranze tutti gli stakeholders di Wachovia.
Lasciando i duellanti al loro destino, credo proprio sia il caso di dire che le cose in Europa si stanno mettendo davvero male, non solo e non tanto per il prevedibile nulla di fatto nel vertice di Parigi pomposamente battezzato G4, un incontro tra amici che non ha potuto che prendere atto del fatto che, in assenza di un governo politico oltre che monetario dell’Europa, non si poteva fare altro che trovare, se possibile, delle soluzioni a livello nazionale al meltdown provocato dalla tempesta perfetta, ma più che altro per le pessime notizie giunte venerdì sera dalla Germania con il fallimento del tentativo di salvataggio di Hypo Real Estate, un nulla di fatto determinato dai pesanti dubbi delle banche chiamate ad investire poco più di 8 miliardi di euro e legati alla situazione disastrosa dei conti di Depfa, vero e proprio braccio armato della società tecnicamente fallita e caratterizzata da problemi finanziari e da rischi reputazionali che avrebbero indotto i banchieri tedeschi, in particolare le landesbanken e le sparkassen a tirarsi indietro, mentre Angela Merkel restava in attese dal suo ministro delle finanze di cui non si è avuto il bene di sentire la voce!
Come è già avvenuto nel caso del drammatico appello di George W. Bush in prime time ed a reti televisive praticamente unificate, anche gli appelli dei quattro governanti europei non si può proprio dire che abbiano sollevato il morale dei già depressi risparmiatori/investitori del vecchio continente, ai quali è stato solo reso noto che la situazione è gravissima, ma che non esistono allo stato risposte chiare ed efficaci da parte dei rispettivi governi, al di là di una macabra notazione del sicuramente sconfitto alle prossime elezioni legislative, Gordon Brown, che ha detto che la cosa peggiore sarebbe il si salvi chi può, una frase che deve avere provocato un intasamento delle linee telefoniche tra i clienti e gli operatori in vista della apertura dei mercati di domani mattina, anche se non è da escludere che molti europei faranno chiarina per vedere cosa accadrà stanotte sui mercati azionari asiatici.
Non sono rimasto, invece, affatto sorpreso, dalla inamovibilità della Banca Centrale Europea, una posizione che il germanizzato Trichet doveva assolutamente mantenere, né credo che sia stato percorso dal minimo sentimento di appartenenza al suo paese natio, anche perché avrà provato un senso di ripulsa per il progettato fondo di salvataggio da 300 miliardi di euro proposto da quello che resta il suo presidente, ma che è anche e soprattutto il suo nemico, il molto decisionista Nicolas Sarkozy, che, nonostante il generoso sostegno di Silvio Berlusconi, ha dovuto accettare la bocciatura del suo piano e salutare come un successo uno stanziamento di dieci volte inferiore della Banca Europea degli Investimenti in favore delle piccole e medie imprese europee vittime del credit crunch.
Come è già accaduto per quattordici mesi negli Stati Uniti d’America, la sacralità del week end dei manager di piazza Cordusio è stata infranta dalla necessità di preparare il consiglio di amministrazione straordinario chiamato a deliberare un maxi aumento di capitale che per 3,3 miliardi di euro verranno dalla rinuncia degli azionisti al loro dividendo per l’esercizio in corso, per qualche altro centinaio di milioni di euro da un prestito obbligazionario al servizio del quale vi saranno 180 milioni di azioni proprie acquistate negli ultimi tempi dal gruppo bancario, ma per un altro paio di miliardi di euro si dovrà ricorrere ad un’altra emissione obbligazionaria convertibile, per un totale che, ameno di sorprese dell’ultima ora, dovrebbe superare i 6 miiardi di euro e consentire al depresso Tier 1 di Unicredit di riguadagnare la soglia del 6 per cento dalla quale al momento si discosta per mezzo punto percentuale.
Per un gruppo che ha dichiarato in queste settimane ed in questi giorni che non avrebbe effettuato alcun aumento di capitale non c’è male, anche se di dichiarazioni fatte e poi smentite a tempo di recordo è pieno il giornale di bordo della tempesta perfetta ancora virulentemente in corso dopo poco meno di quattordici mesi dal suo avvio il 9 agosto del 2007, un giornale di bordo diligentemente tenuto dai redattori dell’infallibile Wall Street Journal e che è pieno più di brutte che di belle sorprese e che ha ancora molte, ma molte pagine bianche da riempire!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.