Mentre si ha davvero l’impressione che il cielo stia cadendo sulla Terra, con gli indici azionari che su tutti i fusi orari stanno cedendo a livelli che appaiono quasi incredibili, l’ex (?) investment banker Hank Paulson tira dritto per la sua strada ed estrae dal suo inesauribile cilindro il nome del supervisore del nuovo giocattolo da 700 miliardi di dollari che un Congresso terrorizzato gli ha appena regalato ed il presidente Bush vi ha messo il suo timbro a tempo davvero di record, ed il nome, stenterete a crederlo, è quello di uno dei suoi tanti vice al Tesoro, Neel Kashori, ma soprattutto uno che ha diviso con il suo boss una lunga militanza nella molto potente ed ancor più preveggente Goldman Sachs e che non avrà dubbio alcuno nell’indicare quale è il prezzo giusto per i titoli tossici che dovrà acquistare a piene mani dalle alquanto disperate ex banche di investimento ebanche più o meno globali sopravvissute, almeno per il momento, agli alti marosi della tempesta perfetta che tra tre giorni festeggerà i suoi primi quattordici mesi di vita.
Non è molto chiaro se il sottosegretario al Tesoro gestirà direttamente il neonato Toubled Assets Relief Program o guiderà soltanto l’altrettanto nuovo di zecca Office of Financial Stability, ma dai molto informati dispacci delle maggiori agenzie statunitensi parrebbe proprio trattarsi della stessa cosa, quello che è certo è che sarà lui ad occuparsi delle modalità di acquisto dei titoli della finanza strutturata andati a male e che gestirà i primi 250 miliardi di dollari di assegnazione a tempo di record!
Certo, non si sono visti segni di eccessivo entusiasmo tra i disorientati operatori che dopo aver mandato a picco le borse asiatiche, si sono accaniti su quelle europee, che hanno registrato oggi capitomboli da vero record, come l’oltre meno 8 per cento registrato a Piazza Affari dall’elitario S&P 40 e dal molto più plebeo Mibtel, ma non sono da meno il Dax a Francoforte, il Footsie a Londra o il Cac 40 a Parigi, con perdite che oscillano intorno ai sette punti percentuali, o la borsa di Zurigo che giunge a sfiorare un sei per cento che contrasta vivamente con il solitamente compassato modo di operare dei cittadini della Confederazione elevetica, ma, anche se per ore con perdite di appena il 4 per cento, il peggio sta venendo dalle contrattazioni sulla piazza di New York, dove , in luogo dei tappi delle bottiglie di champagne per il varo del TARP e per la nomina della sua guida sono piovuti ordini di vendita a pioggia che hanno spedito il Dow Jones di un colpo al di sotto della più che psicologica soglia dei 10.000 punti.
Non vorrei infierire, ma penso proprio che gli strateghi della comunicazione dei leaders mondiali abbiano mal consigliato i loro clienti, perché non è stato un bel vedere Bush, Sarkozy, Brown, la Merkel, Berlusconi e chi più ne ha ne metta parlare di uno scenario catastrofico, apparentemente del tutto incuranti dell’effetto panico che le loro parole, ma ancora di più le loro facce, hanno indotto anche nel più tranquillo e moderato delle centinaia di milioni di risparmiatori/investitori e che lo hanno spinto a passare le lunghe ore del week end a preparare gli ordini di vendita da passare di buon ora stamane al proprio intermediario, aggiungendo così la sua goccia a quel mare tempestoso che ha travolto tutte le difese approntate dalle autorità monetarie, inclusi i 600 miliardi di liquidità messi a disposizione delle banche americane dall’ineffabile Bernspan che non vede l’ora di tagliare nuovamente i già negativi in termini reali tassi di interesse a disposizione sua e del Federal Open Market Committee.
Ha fatto su di me un certo effetto sentire gli argomenti che utilizzo da quattordici mesi sulla bocca dei massimi responsabili dei paesi del mondo industrializzato, parole che rendono il Dr. Dome, come sprezzantemente dagli stolti è stato appellato l’economista Noriel Rubini, un inguaribile ottimista, al punto da far ritenere che le massicce perdite dei listini siano tutto sommato il segno che almeno una parte dei destinatari dei terrorizzanti messaggi ha mantenuto i nervi saldi e non ha accettato di vendere in perdita quelle azioni che spesso rappresentano buona parte del loro patrimonio, né si fanno prendere da quel fenomeno denominato fly to quality, non fosse altro che per il semplicissimo motivo che nessuno, ma proprio nessuno, riesce nemmeno ad immaginare dove sia la qualità!
In preda al panico più totale, i leaders dei quattro maggiori europei riuniti dal decisionista Sarkozy a Parigi nel fine settimana stanno facendo a gara nel promettere ai risparmiatori che non perderanno nemmeno un euro dei loro depositi, ignorando o facendo finta di ignorare che non vi è alcuna possibilità di mantenere quella che con molta signorilità l’ex ministro del Tesoro Italiano, il professor Luigi Spaventa, ha definito una “fragile promessa”, anche perché vorrei proprio sapere dove andrebbero a prendere quelle migliaia di miliardi di euro necessari a dare sostanza alle loro parole, nel malaugurato caso che si realizzasse il più catastrofico degli scenari per le già malmesse banche europee.
Fa quasi tenerezza, in un frangente come quello che stiamo tutti vivendo, vedere la lotta a coltello sulle spoglie della quarta banca commerciale statunitense, Wachovia Bank, messa in scena tra Citigroup e Wells Fargo, con un giudice di livello superiore che ha prontamente annullato l’ordinanza d’urgenza emanata da un altro giudice e che aveva temporaneamente, ma come si è visto molto temporaneamente, bloccato sabato il deal tra Wells Fargo e Wachovia, entrambi desiderosi di andare a nozze, non fosse altro che per il non banale aspetto che vede l’offerta di Wells Fargo avere una consistenza più di sette volte superiore al piatto di lenticchie proposto dal giovane Chief Executive Officer indiano di Citi, un’offerta che peraltro ha il pregio di non pesare nemmeno per un dollaro sulle esauste casse del Federal Deposit Insurance Corporation, la cui brava presidentessa ha non a caso affermato che preferisce l’offerta che renderà più contenti gli azionisti di Wachovia e sarà più utile per l’equilibrio del sistema finanziario statunitense.
Non voglio sottrarmi dall’argomento che tiene banco nel mercato finanziario italiano, la repentina conversione ad u dei top manager di Unicredit Group che, dopo aver smentito per settimane e fino a venerdì l’urgenza e l’esigenza di un aumento di capitale, hanno inchiodato per cinque ore i consiglieri di amministrazione nella giornata di ieri, domenica, per ottenere il via libera ad un aumento da 6,6 miliardi di euro, peraltro condito da una serie di dismissioni ed ulteriori tagli dei costi, una repentina conversione sulla strada del Tier 1 che non ha avuto una calda accoglienza dal mercato, né pare che la conference call che Profumo ha tenuto stamane alle 8,00 abbia entusiasmato gli intervenuti; ma vorrei approfittarne per rispondere ad uno dei pochi lettori che ha trovato il modo di comunicare con me per dirgli che molto di quello cui stiamo assistendo dipende proprio dal livello di leverage della maggiori banche statunitensi ed europee, livelli che giungono fino al folle 50 ad 1 che caratterizzerebbe Deutsche Bank, quando, lo ricordo, l’orso di Stearns è andato a zampe all’aria con un leverage ratio di 33 ed era pur sempre una Investment Bank, mentre quello che caratterizza Deutsche ed altre banche globali è un leverage ratio che impensierirebbe anche se ci trovasse in presenza di un hedge fund!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.