Nell’ottobre del 1987, collaboravo nel mio scarso tempo libero con il quotidiano Il Manifesto e ricordo ancora le facce sgomente dei redattori economici ad alto tasso di ideologizzazione di quel quotidiano rispetto alla prima crisi finanziaria da bolla speculativa, una crisi scoppiata a pochissimi anni dall’inizio del processo di deregulation selvaggia voluta dal presidente-attore, sarebbe meglio dire attore-presidente, Ronald Reagan, un uomo del tutto incompetente in materia economica e finanziaria, ma perfettamente in grado di recitare la parte che gli era stata assegnata da Big Finance, Big Pharma, Big Oil, Big Tabacco e tutte le altre Big che possono venirvi in mente, al punto che fu coniato un termine, reaganomics, che porterà i nostri figli e nipoti a pensare che quel presidente degli Stati Uniti d’America fosse in realtà un grande economista o, perlomeno, una persona esperta di affari e che aveva l’unico obiettivo di far sì, come recitava il fortunato libro di in venture capitalist, che l’America riprendesse a funzionare!
Ebbene, già allora era perfettamente chiaro che quella grossolana ricetta economica, poi perfezionata attraverso la miscela veramente esplosiva della stessa deregulation con la finanziarizzazione selvaggia ed una globalizzazione davvero senza regole, aveva già gonfiato in modo veramente esagerato i valori degli immobili, degli assets azionari ed obbligazionari, creando le premesse per quella crisi del 1987 che fu davvero letale per l’economia giapponese che, come tutti ben sanno, non si è ancora ripresa dallo scoppio di quelle diverse bolle speculative che colsero il Nikkey 225 allo stratosferico livello dei 40 mila punti e che videro i terreni alla periferia di Tokyo punteggiati delle bandierine poste dalle banche giapponesi, molte delle quali oggi non esistono proprio più.
Quando ci si interroga sulle cause e, soprattutto, sulla durata delle conseguenze della tempesta perfetta, è proprio da lì che bisogna partire, perché quello che è accaduto in Giappone negli ultimi 21 anni non è il sintomo di una malattia specifica di quella grande economia estremo orientale, ma rappresenta piuttosto la sacrosanta reazione dei risparmiatori/investitori giapponesi rispetto ai comportamenti disinvolti e, oso dire, ad alto tasso di malvagità, che caratterizzarono quell’inestricabile groviglio di potere economico, finanziario e politico che aveva adottato metodi rispetto ai quali impallidiscono quelli propri della Yakuza, la potente mafia di quel paese, portando ad un disastro che non permise più il collegamento tra l’immensa ricchezza finanziaria delle famiglie giapponesi e le esigenze di un’economia che era, è e, molto probabilmente, sarà tra le meno trasparenti e giuste del pianeta.
Quando scoppiò la bolla del 1987, era appena avvenuto il cambio della guardia alla Federal Reserve, tra il conservatore e competente Paul Volker, cacciato per la sua ferma opposizione a quell’economia di carta in erba, ed un uomo che vantava come unica competenza il rispettabilismo lavoro di previsore per banche di investimento basate a Wall Street, nonché già allora ottimo clarinettista, quell’Alan Greenspan che è stato per Big Business il perfetto contraltare dell’attore assurto alla presidenza degli Stati Uniti d’America, un uomo che rispose allo scoppio contemporaneo di almeno tre bolle speculative, inondando letteralmente il mercato di liquidità ed impedendo che fallissero, come sarebbe stato giusto e sacrosanto, i responsabili del moral hazard di allora, un azzardo morale che impallidisce rispetto a quello degli anni e dei decenni successivi, ma che ne riproduceva in vitro tutti i vizi e tutti i difetti, quella miscela di avidità e spregiudicatezza accompagnati, ora come allora, dal deciso girare la testa della pletora di Authorities e dei politici comodamente assisi sui loro scranni in quel di Washigton D.C., coccolati e vezzeggiati, ora come allora, da un nugolo di lobbisti e già incantati dalle seducenti sirene delle Investment Banks e di quelle divisioni di Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali!
Il clarinettista “prestato” alla guida della politica monetaria ha avuto poi modo, nei diciannove anni di presidenza della banca centrale americana benedetti da ben quattro diversi presidenti, di ripetere la sua performance ogni qualvolta ve ne sia stato bisogno, al punto da diventare, anche nell’immaginario collettivo degli addetti ai lavori, il più grande cavatore di castagne che la Storia ricordi, un personaggio che non ha ancora avuto modo di spiegare perché costrinse tre grandi banche statunitensi a salvare quel Long Term Capital Management, l’hedge fund dei premi Nobel, dal suo fallimento coevo alla gravissima crisi finanziaria della Russia di Boris Eltsin, il benevolo dittatore ad alto tasso alcolemico che ha depredato e fatto depredare dai suoi tanti ed improbabili amici tutte le ricchezze della Madre Russia ed ha preparato il terreno per l’avvento del molto meno benevolo, ma altrettanto dittatore Vladimir Putin, che in pochi anni ha compiuto il miracolo di riprendersele, in proprio, quelle stesse ricchezze, o almeno buona parte di esse.
Non annoierò i miei lettori con le gesta del Maestro, come giustamente è stato definito dai suoi tantissimi beneficiati, Greenspan, nella gestione della crisi asiatica o nel periodo nel quale tenne per lungo, certamente troppo, tempo i tassi ufficiali di riferimento al risibile livello dell’uno per cento, un livello altamente negativo in termini reali e che rappresentò una vera e propria manna per le banche, gli hedge funds, i carry traders e chi più ne ha ne metta, ma creando al contempo le basi per la crescita esponenziale di bolle speculative che furono avvistate per tempo da quel ristretto gruppo di uomini saldamente posti al vertice della più grande Investment Bank del pianeta, la molto potente ed altrettanto preveggente, Goldman Sachs, tra le fine del 2005 ed i primi mesi del 2006, scoperta non del tutto eccezionale in quanto gran parte dei meccanismi letali che ci hanno portato al disastro attuale provenivano proprio dagli apprendisti stregoni della fabbrica dei prodotti più sofisticati offerti dalla “casa”.
Ho raccontato più volte, del tutto incolpevolmente, la favoletta sparsa ad arte dagli abilissimi comunicatori di Goldman, quella che vedrebbe nell’intuizione del Chief Financial Officer, il cinquantasettenne David Viniar, nel settembre del 2006 della catastrofe imminente, la genesi del più grande processo di deleverage mai verificatosi nella storia finanziaria, con vendite massicce alle deliziate concorrenti di quelli che oggi vengono definiti titoli tossici ma che allora venivano visti proprio come le galline dalle uova d’oro di cui tutti sentivano un assoluto bisogno, al punto da pagarli alla pari o quasi, ma sono costretto oggi a dire che quella storiella aveva, con ogni probabilità un antefatto che va retrodatato di almeno sei-nove mesi e che con il povero Viniar ha ben poco a che fare.
Pur avendo sempre descritto Goldman Sachs come una porta girevole dalla quale entrano ed escono persone che hanno già occupato o occuperanno in seguito posti di altissima responsabilità in governi o istituzioni pubbliche strategiche, non si era mai visto che da Goldman uscisse il numero uno e parecchi altri altissimi dirigenti per occupare, nel senso letterale del termine, il ministero del Tesoro USA, ma fu proprio quello che accadde a metà del 2006 come risultato di una sopravvenuta consapevolezza dei rischi tremendi imminenti e della conseguente necessità di spedirli con una mission impossible proprio allora e proprio lì!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ mentre gli atti del convegno sono esportabili dal sito http://www.uil.it/ nella sezione del dipartimento di politica economica.