Sarebbe troppo facile ironizzare sul più che prevedibile flop dell’ennesima mossa azzardata di Bernspan e complici, un flop anticipato, peraltro, dallo stesso freddo e scarno comunicato emesso al termine dei lavori del Federal Open Market Committee della Federal Reserve, un comunicato che, in appena diciannove righe è riuscito ad evidenziare appieno la contraddizione nella quale si dibattono i banchieri centrali, si fa ovviamente per dire, della più potente nazione del mondo, stretti come sono da un inflazione che gli ultimi dati dicono molto al di sopra dell’obiettivo dichiarato urbi et orbi dai nostri e la necessità di fare qualsiasi cosa ed in qualsiasi modo per salvare le banche e le altre innumerevoli entità operanti nel mercato finanziario globale dal disastro annunciato nel quale si dibattono, mentre appaiono del tutto incuranti delle sofferenze dei risparmiatori, degli investitori, per non parlare del popolo sempre più vasto di coloro che hanno perso la casa, il lavoro, o, come accade purtroppo sempre più spesso, li hanno perse entrambi.
Come mi è già toccato fare nel caso dei risultati nel primo trimestre 2008 (che, non ci crederete, ma si chiude al termine di febbraio, che quest’anno bisesto cade di 29) delle prime due delle ormai ex Big Five statunitensi, che lo ricordo sono in realtà delle vere e proprie CIB delle CIB,la mitica Goldman Sachs e l’alquanto traballante Lehman Brothers, mi eserciterò oggi nello stesso compito con riferimento a Morgan Stanley, che rappresenta la penultima apparizione in attesa di quelli che verranno rilasciati dalla prima della categoria, quella J.P. Morgan- Chase che dovrebbe finalizzare a breve, salvo sorprese clamorose dell’ultima ora, l’acquisizione della rivale Bear Stearns ad un prezzo stracciato al punto da rappresentare meno della metà di quello del palazzo che ospita il quartier generale della banca ormai tecnicamente fallita.
Anche se ha battuto, come del resto le due rivali espostesi per prime, le più che pessimistiche stime degli analisti ed ha registrato un taglio dei ricavi (-17 per cento) molto più contenuto di quello subito dalla altre due investment banks (-50 per cento per Goldman Sachs e -30,5 per cento per Lehaman Brothers), non si capisce proprio la soddisfazione del numero uno John Mack, in quanto la sua banca registra, nel periodo considerato e prima dell’orribile mese di marzo che batterà sul trimestre successivo, un calo dei profitti del 42 per cento rispetto a quelli conseguiti nello stesso trimestre del 2007 e deve aggiungere svalutazioni per 2,3 miliardi di dollari ai 9,4 miliardi già contabilizzati nella seconda metà del già orribile di suo 2007.
Mi permetto di dare un suggerimento agli analisti finanziari più esperti del mondo, quelli operanti tra il miglio quadrato della City londinese quelli alacremente al lavoro all’ombra del wall newyorkese: abbassate ancora le stime più di quanto già state facendo, così gli orribili risultati delle CIB delle CIB, delle banche commerciali globali o meno brilleranno ancor di più per differenza e tutti vivranno felici e contenti e questo avverrà nel migliore dei mondi possibili, che poi è quello della fantasia, dei sogni e delle speranza, con la piccola avvertenza che verrà poi il giorno nel quale tutti questi sentimenti positivi si troveranno, inevitabilmente, di fronte la realtà nuda e cruda.
Non avendo tenuto una dettagliata contabilità dei vistosi rialzi seguiti alla disperata mossa di Bernspan e complici, così mi asterrò da quella delle pesanti perdite registrate ieri dai listini europei e, successivamente, da quelli statunitensi, mentre, complice la festività giapponese ha privato l’Asia del Nikkey 225, lasciando alle borse cinesi l’improbo compito di dare due risultati contrapposti, con la sensibile flessione dell’Hang Seng e le montagne russe vissute dal sedicente indice di Shanghai, che, dopo aver perso in apertura oltre il 6 per cento, è riuscito a chiudere in rialzo.
Penso sia giusto ricordare l’eroismo dei due presidenti delle fed regionali che hanno avuto il coraggio di votare contro l’ennesimo e scontatissimo ribasso dei tassi sui Fed Funds e di quello relativo all’operazione di sconto presso la Fed, che, in due riprese, è stato ridotto di un punto pieno percentuale, anche perché so bene cosa significhi andare contro corrente rispetto a quei propri colleghi che avrebbero tanto gradito l’unanimità nello stare dietro la curva e dietro il mercato, dando, inoltre, al mercato proprio quello che il mercato così a gran voce reclama.
Purtroppo, la Storia ci insegna che il popolo e gli stessi operatori ed analisti del mercato finanziario statunitense, così come di quello globale, non sempre hanno ragione, soprattutto quando l’avidità che è stata il tratto imperante degli ultimi venticinque anni almeno ha lasciato definitivamente il posto a quel sentimento che raramente consente di decidere per il meglio e che è rappresentato dalla paura.
Ma se agli analisti, agli operatori ed ai giornalisti, più o meno embedded, sostituiamo gli accademici, allora veramente le cose si complicano, come ho avuto modo di vedere ieri nel corso del convegno che vi avevo annunciato nei giorni scorsi e che aveva, appunto, ad oggetto la finanziarizzazione, la crisi dei mercati ed i relativi effetti sociali, in quanto ho avuto modo di vedere come sia arduo per chi, come lo stesso Bernspan, è abituato a vedere la carne ed il sangue delle vicende economiche e finanziarie ex cathedra comprendere appieno le dimensioni del fenomeno che stiamo vivendo, quella che ormai quasi unanimemente viene definita se non la tempesta perfetta, perlomeno la più profonda e grave crisi finanziaria registrata dal secondo dopoguerra mondiale in poi.
Premetto doverosamente che non vi alcuna colpa nel non avere visto, dall’interno, quello che è accaduto nel periodo intercorso dal 1985 ai giorni nostri in quei laboratori via, via più sofisticati che sono stati appellati, non troppi anni orsono, le fabbriche prodotto delle investment banks o di quelle riproduzioni di queste che sono le divisioni Corporate & Investment Banking delle banche globali e di quella miriade di banche operanti uin un’area geografica più ridotta, ma che hanno deciso di pensare in grande e di fare, come si potrebbe dire, i soldi in fretta per fare contenti i propri vertici e gli oltremodo famelici loro azionisti, con l’obiettivo di stock options per i premi e sempre più generosi pay out per i secondi.
Ciò che prevale, fatte salve alcune eccezioni, tra gli economisti accademici è la certezza, o quanto meno la fondata speranza, che alla fine tutto finirà per aggiustarsi e che, comunque, si troverà un punto di equilibrio dopo aver semmai toccato il fondo di questa da pochi prevista crisi finanziaria, così come è diffusa la previsione che, alla fine, il gioco diventerà fortemente cooperativo, sorvolando alquanto sul fatto che, almeno al momento, sembra prevalere nettamente il tristemente noto principio del “to beggar my neighbour”, o la sconsolata constatazione che John Maynard Keynes ebbe a fare analizzando la Grande Depressione.
Come mi è già toccato fare nel caso dei risultati nel primo trimestre 2008 (che, non ci crederete, ma si chiude al termine di febbraio, che quest’anno bisesto cade di 29) delle prime due delle ormai ex Big Five statunitensi, che lo ricordo sono in realtà delle vere e proprie CIB delle CIB,la mitica Goldman Sachs e l’alquanto traballante Lehman Brothers, mi eserciterò oggi nello stesso compito con riferimento a Morgan Stanley, che rappresenta la penultima apparizione in attesa di quelli che verranno rilasciati dalla prima della categoria, quella J.P. Morgan- Chase che dovrebbe finalizzare a breve, salvo sorprese clamorose dell’ultima ora, l’acquisizione della rivale Bear Stearns ad un prezzo stracciato al punto da rappresentare meno della metà di quello del palazzo che ospita il quartier generale della banca ormai tecnicamente fallita.
Anche se ha battuto, come del resto le due rivali espostesi per prime, le più che pessimistiche stime degli analisti ed ha registrato un taglio dei ricavi (-17 per cento) molto più contenuto di quello subito dalla altre due investment banks (-50 per cento per Goldman Sachs e -30,5 per cento per Lehaman Brothers), non si capisce proprio la soddisfazione del numero uno John Mack, in quanto la sua banca registra, nel periodo considerato e prima dell’orribile mese di marzo che batterà sul trimestre successivo, un calo dei profitti del 42 per cento rispetto a quelli conseguiti nello stesso trimestre del 2007 e deve aggiungere svalutazioni per 2,3 miliardi di dollari ai 9,4 miliardi già contabilizzati nella seconda metà del già orribile di suo 2007.
Mi permetto di dare un suggerimento agli analisti finanziari più esperti del mondo, quelli operanti tra il miglio quadrato della City londinese quelli alacremente al lavoro all’ombra del wall newyorkese: abbassate ancora le stime più di quanto già state facendo, così gli orribili risultati delle CIB delle CIB, delle banche commerciali globali o meno brilleranno ancor di più per differenza e tutti vivranno felici e contenti e questo avverrà nel migliore dei mondi possibili, che poi è quello della fantasia, dei sogni e delle speranza, con la piccola avvertenza che verrà poi il giorno nel quale tutti questi sentimenti positivi si troveranno, inevitabilmente, di fronte la realtà nuda e cruda.
Non avendo tenuto una dettagliata contabilità dei vistosi rialzi seguiti alla disperata mossa di Bernspan e complici, così mi asterrò da quella delle pesanti perdite registrate ieri dai listini europei e, successivamente, da quelli statunitensi, mentre, complice la festività giapponese ha privato l’Asia del Nikkey 225, lasciando alle borse cinesi l’improbo compito di dare due risultati contrapposti, con la sensibile flessione dell’Hang Seng e le montagne russe vissute dal sedicente indice di Shanghai, che, dopo aver perso in apertura oltre il 6 per cento, è riuscito a chiudere in rialzo.
Penso sia giusto ricordare l’eroismo dei due presidenti delle fed regionali che hanno avuto il coraggio di votare contro l’ennesimo e scontatissimo ribasso dei tassi sui Fed Funds e di quello relativo all’operazione di sconto presso la Fed, che, in due riprese, è stato ridotto di un punto pieno percentuale, anche perché so bene cosa significhi andare contro corrente rispetto a quei propri colleghi che avrebbero tanto gradito l’unanimità nello stare dietro la curva e dietro il mercato, dando, inoltre, al mercato proprio quello che il mercato così a gran voce reclama.
Purtroppo, la Storia ci insegna che il popolo e gli stessi operatori ed analisti del mercato finanziario statunitense, così come di quello globale, non sempre hanno ragione, soprattutto quando l’avidità che è stata il tratto imperante degli ultimi venticinque anni almeno ha lasciato definitivamente il posto a quel sentimento che raramente consente di decidere per il meglio e che è rappresentato dalla paura.
Ma se agli analisti, agli operatori ed ai giornalisti, più o meno embedded, sostituiamo gli accademici, allora veramente le cose si complicano, come ho avuto modo di vedere ieri nel corso del convegno che vi avevo annunciato nei giorni scorsi e che aveva, appunto, ad oggetto la finanziarizzazione, la crisi dei mercati ed i relativi effetti sociali, in quanto ho avuto modo di vedere come sia arduo per chi, come lo stesso Bernspan, è abituato a vedere la carne ed il sangue delle vicende economiche e finanziarie ex cathedra comprendere appieno le dimensioni del fenomeno che stiamo vivendo, quella che ormai quasi unanimemente viene definita se non la tempesta perfetta, perlomeno la più profonda e grave crisi finanziaria registrata dal secondo dopoguerra mondiale in poi.
Premetto doverosamente che non vi alcuna colpa nel non avere visto, dall’interno, quello che è accaduto nel periodo intercorso dal 1985 ai giorni nostri in quei laboratori via, via più sofisticati che sono stati appellati, non troppi anni orsono, le fabbriche prodotto delle investment banks o di quelle riproduzioni di queste che sono le divisioni Corporate & Investment Banking delle banche globali e di quella miriade di banche operanti uin un’area geografica più ridotta, ma che hanno deciso di pensare in grande e di fare, come si potrebbe dire, i soldi in fretta per fare contenti i propri vertici e gli oltremodo famelici loro azionisti, con l’obiettivo di stock options per i premi e sempre più generosi pay out per i secondi.
Ciò che prevale, fatte salve alcune eccezioni, tra gli economisti accademici è la certezza, o quanto meno la fondata speranza, che alla fine tutto finirà per aggiustarsi e che, comunque, si troverà un punto di equilibrio dopo aver semmai toccato il fondo di questa da pochi prevista crisi finanziaria, così come è diffusa la previsione che, alla fine, il gioco diventerà fortemente cooperativo, sorvolando alquanto sul fatto che, almeno al momento, sembra prevalere nettamente il tristemente noto principio del “to beggar my neighbour”, o la sconsolata constatazione che John Maynard Keynes ebbe a fare analizzando la Grande Depressione.