Quanti si chiedono se il fulmineo salvataggio di Bear Stearns da parte di J.P. Morgan-Chase, ma, soprattutto, da parte della Federal Riserve che ha prestato garanzie assolute sull’iniezione di liquidità per 30 miliardi di dollari ricevuta venerdì dalla quinta banca di investimento statunitense, già in quelle ore tecnicamente fallita, si configuri come una solenne smentita dei giuramenti fatti Bush e Bernanke di non premiare il moral hazard intervenendo in favore di alcuna delle banche i cui comportamenti sono all’origine della tempesta perfetta dimostrano di non comprendere l’abisso che, nelle situazioni di crisi ma non solo, separano le parole dei fatti.
Dal punto di vista strettamente tecnico, l’immane garanzia prestata senza condizioni dagli uomini di Bernspan non può intendersi in favore di Bear, né tanto meno dei suoi sventurati azionisti che hanno visto, nel volgere di due sedute, il valore dell’azione liquefarsi letteralmente nelle loro mani, quanto una sorta di salvataggio preventivo della banca acquirente, quella J.P. Morgan-Chase che è stata scelta sia perché la più esposta nei confronti di bear, sia perché l’approccio maggiormente conservativo seguito dai suoi vertici la ha relativamente preservata dai marosi della tempesta perfetta.
L’azione rapidissima della Fed si è, peraltro, esercitata su tre fronti, in quanto, oltre alla maxi garanzia prestata in favore del cavaliere bianco, ha ulteriormente tagliato il tasso ufficiale di sconto (dal 3,50 al 3,25 per cento), ma, e forse soprattutto, ha ulteriormente allargato il bacino della discarica a cielo aperto nella quale sta ospitando una parte significativa della montagna di titoli della finanza strutturata prodotta da Bear e dalla miriade di banche di ogni ordine e grado nel corso del tempo e ormai del tutto indesiderati da parte degli investitori istituzionali e non.
Le analogie con il salvataggio della britannica Northern Rock, effettuato l’estate scorsa da una alquanto incerta e riluttante Bank of England, sono pressoché totali, anche se, nel caso della blasonata banca di investimenti statunitense, è quasi del tutto assente il non trascurabile elemento rappresentato dalle file di depositanti alla disperata ed affannosa ricerca del recupero dei loro soldi, quelle immagini realmente devastanti che hanno invaso le case dei teleutenti di tutto il mondo prima che il Governo di Sua Maestà si decidesse a garantire i depositi fino all’ultimo penny, rinnegando apertamente le previsioni della legge che tutela i depositanti sul suolo della Gran Bretagna ed aprendo così la strada che ha condotto, immancabilmente, alla nazionalizzazione del disastrato, ed alquanto spogliato dai suoi rapaci e spregiudicati vertici e manager, ottavo istituto di credito di quel Paese.
Lasciando i Soloni di turno ai loro appassionati ed alquanto ipocriti dibattiti sul rapporto tra etica e finanza, mi permetto di dire che il fallimento, perché di questo si è in realtà trattato, di una banca che in realtà è o era per sua stessa natura una sorta di gigantesca Corporate & Investment Bank apre una fase dello scenario assolutamente inquietante, in quanto, evaporatisi i gonzi istituzionali o meno, resta soltanto quell’intreccio fortissimo che lega ogni soggetto operante nel vasto mercato finanziario globale con l’altro, in una sorta di inestricabile matassa di debiti e crediti, della quale nessuno, ma proprio nessuno, sa dove parta il filo iniziale.
Non è peraltro un caso se, mentre ancora erano caldi i dispacci ed i resoconti giornalistici in tempo real e sul prezzo della pelle dell’orso, che tutti erano lì ad interrogarsi su quale sarebbe stata la prossima vittima e sono bastati i rumors sulle presunte difficoltà incontrate in Asia da Lehman Brothers, un’altra delle Big Five statunitensi, che le azioni di quest’ultima sono crollate del 50 per cento, per poi chiudere, con volumi di scambi assolutamente mostruosi, con una perdita di poco meno del 20 per cento.
Brillava ieri, in quasi perfetta solitudine, la stella del cavaliere bianco, ma in fondo non tanto visto che di coraggio ne ha mostrato molto meno di quello, ad esempio, del famoso San Giorgio, con le azioni di J.P. Morgan-Chase in rialzo per tutta la seduta e chiuse a poco meno di un rotondo +10 per cento, in quanto il mercato ha apprezzato che il prezzo, si fa per dire, della transazione conclusa nella notte di domenica, sia stato inferiore al valore del palazzo che ospita il quartier generale di Bear.
Agli albori della tempesta perfetta prevedevo che uno degli effetti della stessa sarebbe stato un drastico processo di concentrazione del settore creditizio statunitense, in parte favorito dalla fulminea liquefazione della maggior parte della pletora di entità operanti nel settore del mortgage e nell’assorbimento progressivo delle poche superstiti da parte di banche di varia dimensione, ma credo che, alla fine alquanto lontana della storia, questa concentrazione finirà per essere ancora più drastica, per vedere forse non più di due superstiti investment bank, un numero di commercial bank statunitensi di respiro nazionale non superiore a tre entità, un completo rinnovamento nel settore delle monoline, frutto di fallimenti e dell’avvento di nuove e più prudenti compagnie, rinnovamento che, a sua volta, favorirà un’altrettanto drastica semplificazione nel gigantesco settore assicurativo.
In un oceano di rosso cupo rappresentato dagli indici asiatici, europei e dagli altri due indici statunitensi, spiccava ieri il tenue e solitario verde del Dow Jones Industrial 30, ma credo non sfugga a chi si è preso, come me, la briga di dare uno sguardo alle sorti dei trenta illustri componenti dell’indice che si è trattato, con ogni probabilità, ed al netto dell’effetto cavaliere bianco, di una ottima performance dei gestori incaricati di effettuare gli acquisti di buyback deliberati in precedenza dai boards delle rispettive compagnie, che giustamente approfittano dei ribassi per spendere meno e dare un sostanzioso e generoso sostegno alle quotazioni delle rispettive azioni.
Si aprono oggi i lavori del Federal Open Market Committee della Federal Reserve, una riunione dagli esiti più che scontati, con l’unica incertezza legata all’entità del maxi taglio del tasso dui Fed Funds, verosimilmente oscillante tra 75 punti base ed il punto pieno percentuale, mentre ci si attende un’ulteriore limatura di 25 punti base per il TUS, che dovrebbe portarsi al 3 per cento.
Sono certo che Bernspan ed i suoi complici non deluderanno le attese, intenti come sono da tempo a stare dietro, ma molto dietro, la curva ed, aggiungo io, dietro ma molto dietro il mercato.
Vi rammento nuovamente l’appuntamento di domani alla 9 e 30 al Residence Ripetta, nell’omonima via di Roma, per il convegno sulla crisi finanziaria.
Dal punto di vista strettamente tecnico, l’immane garanzia prestata senza condizioni dagli uomini di Bernspan non può intendersi in favore di Bear, né tanto meno dei suoi sventurati azionisti che hanno visto, nel volgere di due sedute, il valore dell’azione liquefarsi letteralmente nelle loro mani, quanto una sorta di salvataggio preventivo della banca acquirente, quella J.P. Morgan-Chase che è stata scelta sia perché la più esposta nei confronti di bear, sia perché l’approccio maggiormente conservativo seguito dai suoi vertici la ha relativamente preservata dai marosi della tempesta perfetta.
L’azione rapidissima della Fed si è, peraltro, esercitata su tre fronti, in quanto, oltre alla maxi garanzia prestata in favore del cavaliere bianco, ha ulteriormente tagliato il tasso ufficiale di sconto (dal 3,50 al 3,25 per cento), ma, e forse soprattutto, ha ulteriormente allargato il bacino della discarica a cielo aperto nella quale sta ospitando una parte significativa della montagna di titoli della finanza strutturata prodotta da Bear e dalla miriade di banche di ogni ordine e grado nel corso del tempo e ormai del tutto indesiderati da parte degli investitori istituzionali e non.
Le analogie con il salvataggio della britannica Northern Rock, effettuato l’estate scorsa da una alquanto incerta e riluttante Bank of England, sono pressoché totali, anche se, nel caso della blasonata banca di investimenti statunitense, è quasi del tutto assente il non trascurabile elemento rappresentato dalle file di depositanti alla disperata ed affannosa ricerca del recupero dei loro soldi, quelle immagini realmente devastanti che hanno invaso le case dei teleutenti di tutto il mondo prima che il Governo di Sua Maestà si decidesse a garantire i depositi fino all’ultimo penny, rinnegando apertamente le previsioni della legge che tutela i depositanti sul suolo della Gran Bretagna ed aprendo così la strada che ha condotto, immancabilmente, alla nazionalizzazione del disastrato, ed alquanto spogliato dai suoi rapaci e spregiudicati vertici e manager, ottavo istituto di credito di quel Paese.
Lasciando i Soloni di turno ai loro appassionati ed alquanto ipocriti dibattiti sul rapporto tra etica e finanza, mi permetto di dire che il fallimento, perché di questo si è in realtà trattato, di una banca che in realtà è o era per sua stessa natura una sorta di gigantesca Corporate & Investment Bank apre una fase dello scenario assolutamente inquietante, in quanto, evaporatisi i gonzi istituzionali o meno, resta soltanto quell’intreccio fortissimo che lega ogni soggetto operante nel vasto mercato finanziario globale con l’altro, in una sorta di inestricabile matassa di debiti e crediti, della quale nessuno, ma proprio nessuno, sa dove parta il filo iniziale.
Non è peraltro un caso se, mentre ancora erano caldi i dispacci ed i resoconti giornalistici in tempo real e sul prezzo della pelle dell’orso, che tutti erano lì ad interrogarsi su quale sarebbe stata la prossima vittima e sono bastati i rumors sulle presunte difficoltà incontrate in Asia da Lehman Brothers, un’altra delle Big Five statunitensi, che le azioni di quest’ultima sono crollate del 50 per cento, per poi chiudere, con volumi di scambi assolutamente mostruosi, con una perdita di poco meno del 20 per cento.
Brillava ieri, in quasi perfetta solitudine, la stella del cavaliere bianco, ma in fondo non tanto visto che di coraggio ne ha mostrato molto meno di quello, ad esempio, del famoso San Giorgio, con le azioni di J.P. Morgan-Chase in rialzo per tutta la seduta e chiuse a poco meno di un rotondo +10 per cento, in quanto il mercato ha apprezzato che il prezzo, si fa per dire, della transazione conclusa nella notte di domenica, sia stato inferiore al valore del palazzo che ospita il quartier generale di Bear.
Agli albori della tempesta perfetta prevedevo che uno degli effetti della stessa sarebbe stato un drastico processo di concentrazione del settore creditizio statunitense, in parte favorito dalla fulminea liquefazione della maggior parte della pletora di entità operanti nel settore del mortgage e nell’assorbimento progressivo delle poche superstiti da parte di banche di varia dimensione, ma credo che, alla fine alquanto lontana della storia, questa concentrazione finirà per essere ancora più drastica, per vedere forse non più di due superstiti investment bank, un numero di commercial bank statunitensi di respiro nazionale non superiore a tre entità, un completo rinnovamento nel settore delle monoline, frutto di fallimenti e dell’avvento di nuove e più prudenti compagnie, rinnovamento che, a sua volta, favorirà un’altrettanto drastica semplificazione nel gigantesco settore assicurativo.
In un oceano di rosso cupo rappresentato dagli indici asiatici, europei e dagli altri due indici statunitensi, spiccava ieri il tenue e solitario verde del Dow Jones Industrial 30, ma credo non sfugga a chi si è preso, come me, la briga di dare uno sguardo alle sorti dei trenta illustri componenti dell’indice che si è trattato, con ogni probabilità, ed al netto dell’effetto cavaliere bianco, di una ottima performance dei gestori incaricati di effettuare gli acquisti di buyback deliberati in precedenza dai boards delle rispettive compagnie, che giustamente approfittano dei ribassi per spendere meno e dare un sostanzioso e generoso sostegno alle quotazioni delle rispettive azioni.
Si aprono oggi i lavori del Federal Open Market Committee della Federal Reserve, una riunione dagli esiti più che scontati, con l’unica incertezza legata all’entità del maxi taglio del tasso dui Fed Funds, verosimilmente oscillante tra 75 punti base ed il punto pieno percentuale, mentre ci si attende un’ulteriore limatura di 25 punti base per il TUS, che dovrebbe portarsi al 3 per cento.
Sono certo che Bernspan ed i suoi complici non deluderanno le attese, intenti come sono da tempo a stare dietro, ma molto dietro, la curva ed, aggiungo io, dietro ma molto dietro il mercato.
Vi rammento nuovamente l’appuntamento di domani alla 9 e 30 al Residence Ripetta, nell’omonima via di Roma, per il convegno sulla crisi finanziaria.