giovedì 6 marzo 2008

Ambac si arrende alle agenzie di rating


Dopo aver esitato per lunghe settimane, ieri il vertice di Ambac, la compagnia monoline che ha perso il vitale massimo rating da Fitch ed ha ottenuto una stiracchiata conferma da Standard & Poor’s, ma non ancora quella di Moody’s, ha deciso di proceder ad un aumento di capitale per 1,5 miliardi di dollari che le è costato un vero e proprio tonfo in borsa, con la quotazione che, tra trattazione ufficiale ed un pesante after hours, ha sfiorato una perdita del 20 per cento che ben testimonia del disappunto degli azionisti che avevano già sventato un precedente aumento di capitale da 1 miliardo proposto dal titubante numero uno della compagnia.

Pur avendo evitato le pressanti e crescenti richieste di operare un micidiale split delle attività tradizionali di assicurazione delle emissioni delle variegate entità pubbliche statunitensi, una scissione proporzionale che avrebbe lasciato in corpo a quel che sarebbe restato dell’alquanto disastrata compagnia monoline quella montagna di titoli della finanza strutturata che ormai stanno sul mercato ad un tanto al chilo e che continuano a non trovare, nemmeno a prezzi di saldo, una qualche domanda.

Incoronato proprio ieri da Forbes quale uomo più ricco del mondo, il Leone di Omaha sta ancora a spettando che il cappello da lui lanciato nel ring di questa particolare forma di attività assicurativa porti i suoi lucrosi frutti, indifferente di fronte alle sdegnate repliche provenienti dai tremebondi conigli al vertice delle monoline, terrorizzati all’idea di dover abbandonare le loro dorate poltrone ed i compensi da capogiro che restano tali sia in tempi vacche grasse che in quelli attuali, tempi nei quali le costole sporgenti delle suddette vacche sono visibili anche a lunga distanza.

Credo proprio che la mossa di ieri di Ambac testimoni il fallimento di quel deal dato per certo due venerdì orsono ed a contrattazioni ampiamente in corso (ma dove è la Sec?), un deal multimiliardario che vedeva come eroganti il meglio del meglio delle banche globali basate al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico e la cui stipula era data per certa per lunedì o al massimo martedì della scorsa settimana, con i telefoni dei banchieri coinvolti spenti o recanti musichette che hanno ricordato certamente agli interessati interlocutori seduti ai piani alti di Ambac la melodia suonata da un’imperterrita orchestra proprio mentre il Titanic iniziava ad affondare, anche se allora si trattava di un semplice iceberg e non degli alti marosi della tempesta perfetta.

Dispiace che, dopo la lezione di stile impartita ad agosto iniettando tre miliardi di dollari in un suo fondo monetario alquanto pencolante, Goldman Sachs si sia vista “costretta” a congelare i rimborsi di un suo hedge fund, confermando così, ad oltre cinque mesi di distanza, la profezia proveniente direttamente dalla Federal Reserve che dava per certa l’imminente liquidazione di uno o più di questi stravaganti organismi che, orfani del mostruoso effetto leva, non sanno letteralmente più che pesci pigliare ed i cui vertici stanno riflettendo amaramente sul fatto che è bello vivere di volatilità, ma che di troppa volatilità e di inaridimento del credito facile si può altrettanto facilmente morire.

Non vi è operatore, per quanto smaliziato e rotto a tutte le furbizie del mercato finanziario globale, che non si sia visto scorrere di fronte agli occhi il film proiettato nel 1998, quando un allora più giovane Alan Greenspan, ancora non insignito del titolo di maestro ed un po’ infastidito dalle osservazioni non sempre acute di un ancor più giovane Ben Bernanke che iniziava a frequentare, allora nella semplice veste di visiting scholar, la Fed di Philadelphia, decise di non punire l’azzardo morale dell’hedge fund Long Term Capital Management, costringendo un pool di banche volenterose ad ereditare le spoglie della creatura fondata da ben due premi Nobel per l’economia cui spero sia stata tolta d’autorità la prestigiosa chair accademica, privilegio riservato a pochi tra i tanti docenti universitari, che normalmente operano a contratto.

Né ha contribuito a migliorare il clima la notizia che Merryl Lynch ha deciso di gettare finalmente la spugna e di chiudere First Franklin, l’unità specializzata nel settore dei mutui che aveva comprato per 1,3 miliardi di dollari quando la bolla edilizia era prossima alla sua massima espansione e che larga parte ha avuto nelle svalutazioni per 11,5 miliardi di dollari operate in un tragico quarto trimestre del 2007 e rese note poco dopo aver licenziato in tronco il suo ex e strapagato numero uno, non scordandosi di gratificarlo con una liquidazione che, tra contanti e benefit, verrà ricordata a lungo, così come a lungo verrà ricordato l’anomalo premio di ingaggio da 15 milioni di dollari corrisposto al nuovo numero uno della banca, John Thain, che sembra non volesse proprio saperne di lasciare la sua posizione al NYSE per accettare la più ardua sfida della sua giovane vita.

Nel frattempo, forse stanca di lanciare quotidianamente appelli alla trasparenza ai sempre più inquieti banche statunitensi e globali, una, a sua volta, sempre più disorientata Federal Reserve non ha trovato di meglio da fare che diffondere il suo periodico rapporto, dal quale si evince (udite, udite!) che l’economia americana ha subito un deciso rallentamento nel 2007 e che le prospettive per l’anno in corso sono tutt’altro che positive, grazie alla micidiale miscela di sboom immobiliare, credit crunch ed aspettative dei consumatori e degli investitori che già anticipano un redde rationem che sarà pure, come qualche opinionista un po’ cinico sostiene, salutare ma che da doloroso minaccia, ogni giorno che passa, di trasformarsi in dolorosissimo, come ben sanno quei milioni di americani che si sono visti togliere la casa o tagliare con le forbici la o le indispensabili plastic card, diventando in un colpo solo orfani di quello zip zip che accompagnava i loro, a volte sconsiderati, acquisti.

Pur non aspettandosi nulla, ma proprio nulla, dalla riunione del board della Europea Central Bank che si tiene oggi, gli operatori e gli inevitabili analisti faranno finta di restare in trepida attesa fino all’ora di un pranzo forse consumato da un triste vassoio posto sulla loro sempre più triste postazione, forse pensando che tanto valeva andare a pranzo e mitigare l’umore depresso con una bottiglia di vino di qualità proporzionata al proprio grado ed alla propria remunerazione, grado e remunerazione, per non parlare del profit sharing, sempre meno garantiti.

Restando in attesa della prossima mossa dell’attivissimo Governatore Draghi, che avrà fatto ieri gli scongiuri di fronte alla promessa (o alla minaccia?) di diventare il premier di un eventuale governo tecnico, in caso di pareggio alle prossime elezioni politiche, non posso che rallegrarmi per il fatto che qualcosa si sta muovendo anche alla Banca Popolare di Milano e spero che sia qualcosa che vada nella direzione di modificare l’attuale governance, sulla quale indaga una pattuglia di ispettori della Vigilanza, di recente raddoppiata nell’organico.