Con un freddo e scarno comunicato di appena 19 righe, il Federal Open Market Committee della Federal Reserve ha annunciato all’universo mondo di aver deciso di tagliare il tasso sui Fed Funds di tre quarti di punto, portandolo dal 3,00 al 2,25 per cento e di aver contestualmente ridotto il tasso ufficiale di sconto nella stessa misura percentuale, dal 3,25 al 2,50 per cento, misura quest’ultima che si aggiunge al taglio di un quarto di punto intervenuto a seguito della riunione straordinaria del FOMC tenutasi nello scorso drammatico week end, nel corso del quale si è proceduto all’acquisizione di Bear Stearns da parte di J.P. Morgan-Chase, dopo un lavoro estenuante che ha coinvolto esponenti della Fed, della Sec, del Tesoro USA, oltre che affollate squadre di dipendenti di rilievo delle due investment banks coinvolte nell’operazione.
Un disperato Bernspan e altri sette disorientati membri del prestigioso comitato si sono trovati di fronte, con loro e nostra sorpresa, all’opposizione argomentata e molto più lucida di due membri, Richard W. Fisher e Charles I. Plosser, presidenti, rispettivamente, delle Fed regionali di Dallas e di Philadelphia, sostenitori di un’azione di politica monetaria meno aggressiva e, aggiungo io, meno panicata e panicante.
Se pensate che sia l’ora di chiedere un ricovero d’urgenza degli otto membri del FOMC, vi invito a riflettere sul non trascurabile fatto che la stragrande maggioranza degli operatori, degli analisti e dei commentatori si aspettavano veramente un taglio di un rotondo punto percentuale ed ancora ora non riescono a capire perché l’ostinato Ben si sia voluto tenere un ultimo colpo in canna, invece di scaricare tutto il caricatore in una sola e, a loro avviso, risolutiva volta.
Vorrei rassicurare i tanti sostenitori di questa balzana, seppur diffusa, aspettativa, in quanto l’emulo di Alan Greenspan, peraltro suo indiscusso Mentore, ha ancora molto spazio verso il basso, e lo dico ovviamente in tutti i sensi possibili ed immaginabili, prima di eguagliare il suo Maestro che, come tutti certamente ricorderanno, inchiodò il tasso sui Fed Funds per ben due anni al risibile tasso dell’uno per cento, un tasso che, anche alla luce della ben più moderata inflazione di quel periodo, era largamente negativo ove espresso in termini reali, anche se significativamente meno di quanto lo sarebbe ora; quindi, wait and see.
Sorvolo, volutamente, sull’eufioria più che prevedibile dei mercati azionari a questo ennesimo regalo di Bernspan e complici, apoteosi, purtroppo solo temporanea, di quel premio al moral hazard che solennemente sia il nostro che Bush e l’ineffabile Paulson avevano giurato di perseguire con grande fermezza, se non per sottolineare quello scivolone di 100 punti del Dow Jones dovuto alla delusione per quel quarto di punto di taglio inferiore alle universali ed alquanto avide aspettative.
Non voglio, infatti, sprecare il poco spazio che mi sono auto imposto nella redazione delle puntate del Diario e sacrificare lo spazio che meritano le notizie provenienti dalle Big Five statunitensi, quelle vere CIB delle CIB, in profonde ambasce dopo che il bambino di turno ha avuto la sfrontatezza di gridare che il Re, in questa versione odierna l’orso di Stearns, era del tutto nudo.
Mentre non vi è traccia del rinviato sine die bilancio trimestrale di Bear Stearns, documento importante, quando ne cesserà l’embargo, in quanto rivisto da plotoni di donne ed uomini della Fed, della Securities and Exchange Commission, del Tesoro USA, della feroce divisione di revisione di J.P. Morgan-Chase e, the last but not the least, dell’alquanto disorientato Chief Financial Officer della casa di investimenti, peraltro l’unico che, assieme ai suoi vertici aziendali, porterà la responsabilità della veridicità ed attendibilità dei dati dell’ultimo report che la quinta investment bank americana diffonderà prima di venire ingurgitata dagli eredi del mitico John Pierpoint Morgan.
Ma ieri era il giorno dei conti del primo trimestre di Goldman Sachs e di Lehman Brothers ed il mercato ha avuto l’onore e l’onere di festeggiare il drastico calo degli utili e dei ricavi di entrambe, flessioni vistosissime, ma inferiori alle attese dei sempre più pessimisti analisti, per cui le rispettive azioni hanno compiuto dei veri e propri balzi in avanti, addirittura del 46,4 per cento per quella Lehman della quale, sino a poche ore prima, si era pressoché certi del prossimo default, dovuto, come per Bear, ad una fatale crisi di liquidità di cui si erano viste le prime avvisaglie l’altro ieri notte in Asia.
Come i miei pochi lettori ben sanno, in questa sede sono abituato ad andare oltre quelle headlines che sono il pane quotidiano dei giornalisti, più o meno embedded, e li annoierò ricordando che i profitti di Lehman sono calati del 57 per cento rispetto a quelli registrati nel primo trimestre del 2007, mentre i ricavi sono calati complessivamente del 30,5 per cento, ma sono tonfati addirittura dell’88 per cento, per quanto riguarda i ricavi provenienti dal bond trading, mentre continuano a destare preoccupazioni gli 80 miliardi di titoli rappresentativi di mutui per l’acquisto di abitazioni ed edifici ad uso commerciale ancora in portafoglio nel quarto trimestre 2007.
Parlando dei risultati della preveggente Goldman, stento a cedere alla tentazione di scrivere alzandomi in piedi di fronte al frutto delle immani fatiche dell’anziano David Viniar, un uomo che ha l’indiscusso merito di aver salvato dal fallimento la prima delle Big Five, intimando ai suoi molteplici ed alquanto riluttanti partners il drastico cambio di rotta operato a partire dal lontano settembre del 2006, un cambio di rotta che ha portato Goldman a vendere il vendibile della montagna di titoli della finanza strutturata in suo possesso ed a coprire con opportuni strumenti derivati quanto non era proprio possibile vendere.
Ebbene, le cifre diffuse e commentate da questo indiscusso mago dei numeri ci dicono che, nel primo trimestre di quest’anno bisesto, i ricavi della prestigiosa casa di investimenti sono tonfati del 50 per cento circa, anche a causa dei circa 2,5 miliardi di svalutazioni opportunamente operate sui residui ma tuttora consistenti finanziamenti alquanto a rischio, in linea con il tracollo dei profitti di pertinenza del periodo, passati dai 3,2 miliardi di dollari del primo 2007 agli 1,51 miliardi dello stesso periodo di quest’anno, cifre largamente scontate dal mercato che ha inflitto all’azione un ridimensionamento del 30 per cento circa rispetto ai valori di inizio anno, perdite solo in parte ridimensionate dalla brillante e temporanea performance di ieri.
Vi rammento nuovamente l’appuntamento di oggi alla 9 e 30 al Residence Ripetta, nell’omonima via di Roma, per il convegno sulla crisi finanziaria ed i suoi effetti sociali.
Un disperato Bernspan e altri sette disorientati membri del prestigioso comitato si sono trovati di fronte, con loro e nostra sorpresa, all’opposizione argomentata e molto più lucida di due membri, Richard W. Fisher e Charles I. Plosser, presidenti, rispettivamente, delle Fed regionali di Dallas e di Philadelphia, sostenitori di un’azione di politica monetaria meno aggressiva e, aggiungo io, meno panicata e panicante.
Se pensate che sia l’ora di chiedere un ricovero d’urgenza degli otto membri del FOMC, vi invito a riflettere sul non trascurabile fatto che la stragrande maggioranza degli operatori, degli analisti e dei commentatori si aspettavano veramente un taglio di un rotondo punto percentuale ed ancora ora non riescono a capire perché l’ostinato Ben si sia voluto tenere un ultimo colpo in canna, invece di scaricare tutto il caricatore in una sola e, a loro avviso, risolutiva volta.
Vorrei rassicurare i tanti sostenitori di questa balzana, seppur diffusa, aspettativa, in quanto l’emulo di Alan Greenspan, peraltro suo indiscusso Mentore, ha ancora molto spazio verso il basso, e lo dico ovviamente in tutti i sensi possibili ed immaginabili, prima di eguagliare il suo Maestro che, come tutti certamente ricorderanno, inchiodò il tasso sui Fed Funds per ben due anni al risibile tasso dell’uno per cento, un tasso che, anche alla luce della ben più moderata inflazione di quel periodo, era largamente negativo ove espresso in termini reali, anche se significativamente meno di quanto lo sarebbe ora; quindi, wait and see.
Sorvolo, volutamente, sull’eufioria più che prevedibile dei mercati azionari a questo ennesimo regalo di Bernspan e complici, apoteosi, purtroppo solo temporanea, di quel premio al moral hazard che solennemente sia il nostro che Bush e l’ineffabile Paulson avevano giurato di perseguire con grande fermezza, se non per sottolineare quello scivolone di 100 punti del Dow Jones dovuto alla delusione per quel quarto di punto di taglio inferiore alle universali ed alquanto avide aspettative.
Non voglio, infatti, sprecare il poco spazio che mi sono auto imposto nella redazione delle puntate del Diario e sacrificare lo spazio che meritano le notizie provenienti dalle Big Five statunitensi, quelle vere CIB delle CIB, in profonde ambasce dopo che il bambino di turno ha avuto la sfrontatezza di gridare che il Re, in questa versione odierna l’orso di Stearns, era del tutto nudo.
Mentre non vi è traccia del rinviato sine die bilancio trimestrale di Bear Stearns, documento importante, quando ne cesserà l’embargo, in quanto rivisto da plotoni di donne ed uomini della Fed, della Securities and Exchange Commission, del Tesoro USA, della feroce divisione di revisione di J.P. Morgan-Chase e, the last but not the least, dell’alquanto disorientato Chief Financial Officer della casa di investimenti, peraltro l’unico che, assieme ai suoi vertici aziendali, porterà la responsabilità della veridicità ed attendibilità dei dati dell’ultimo report che la quinta investment bank americana diffonderà prima di venire ingurgitata dagli eredi del mitico John Pierpoint Morgan.
Ma ieri era il giorno dei conti del primo trimestre di Goldman Sachs e di Lehman Brothers ed il mercato ha avuto l’onore e l’onere di festeggiare il drastico calo degli utili e dei ricavi di entrambe, flessioni vistosissime, ma inferiori alle attese dei sempre più pessimisti analisti, per cui le rispettive azioni hanno compiuto dei veri e propri balzi in avanti, addirittura del 46,4 per cento per quella Lehman della quale, sino a poche ore prima, si era pressoché certi del prossimo default, dovuto, come per Bear, ad una fatale crisi di liquidità di cui si erano viste le prime avvisaglie l’altro ieri notte in Asia.
Come i miei pochi lettori ben sanno, in questa sede sono abituato ad andare oltre quelle headlines che sono il pane quotidiano dei giornalisti, più o meno embedded, e li annoierò ricordando che i profitti di Lehman sono calati del 57 per cento rispetto a quelli registrati nel primo trimestre del 2007, mentre i ricavi sono calati complessivamente del 30,5 per cento, ma sono tonfati addirittura dell’88 per cento, per quanto riguarda i ricavi provenienti dal bond trading, mentre continuano a destare preoccupazioni gli 80 miliardi di titoli rappresentativi di mutui per l’acquisto di abitazioni ed edifici ad uso commerciale ancora in portafoglio nel quarto trimestre 2007.
Parlando dei risultati della preveggente Goldman, stento a cedere alla tentazione di scrivere alzandomi in piedi di fronte al frutto delle immani fatiche dell’anziano David Viniar, un uomo che ha l’indiscusso merito di aver salvato dal fallimento la prima delle Big Five, intimando ai suoi molteplici ed alquanto riluttanti partners il drastico cambio di rotta operato a partire dal lontano settembre del 2006, un cambio di rotta che ha portato Goldman a vendere il vendibile della montagna di titoli della finanza strutturata in suo possesso ed a coprire con opportuni strumenti derivati quanto non era proprio possibile vendere.
Ebbene, le cifre diffuse e commentate da questo indiscusso mago dei numeri ci dicono che, nel primo trimestre di quest’anno bisesto, i ricavi della prestigiosa casa di investimenti sono tonfati del 50 per cento circa, anche a causa dei circa 2,5 miliardi di svalutazioni opportunamente operate sui residui ma tuttora consistenti finanziamenti alquanto a rischio, in linea con il tracollo dei profitti di pertinenza del periodo, passati dai 3,2 miliardi di dollari del primo 2007 agli 1,51 miliardi dello stesso periodo di quest’anno, cifre largamente scontate dal mercato che ha inflitto all’azione un ridimensionamento del 30 per cento circa rispetto ai valori di inizio anno, perdite solo in parte ridimensionate dalla brillante e temporanea performance di ieri.
Vi rammento nuovamente l’appuntamento di oggi alla 9 e 30 al Residence Ripetta, nell’omonima via di Roma, per il convegno sulla crisi finanziaria ed i suoi effetti sociali.