Si sta intensificando, finalmente anche sui giornali italiani, il dibattito sulla tempesta perfetta e sulle sue prospettive, complice certamente anche il netto peggioramento degli indici azionari, dell’intensificarsi di perdite e svalutazioni relative ai maggiori big players del mercato finanziario globale, del tracollo del dollaro e dei rialzi record di petrolio, oro e materie prime in generale.
Dopo aver pubblicato in prima pagina il percorso verso il baratro delineato nell’articolo di Nouriel Roubini, una specie di gioco dell’oca della crisi finanziaria, l’edizione domenicale del quotidiano La Repubblica ha ospitato gli editoriali di due dei suoi big, l’ex direttore, ma sempre sulla breccia, Eugenio Scalfari e il responsabile della parte economica, Giuseppe Turani, esibentisi in due analisi dell’attuale fase che, almeno leggendo un po’ tra le righe, rischiano di oscurare la fama di catastrofista generalmente attribuita all’economista ospitato in pompa magna dal loro quotidiano.
Con tutto il rispetto dovuto ai due anziani giornalisti, devo dire che ho memoria delle loro acrobazie previsorie, raramente, peraltro, coronate da successo, e che, se dovessi basarmi soltanto su quanto contenuto nei loro due pezzi e se fossi un dealer, mi troverei nell’alquanto scomoda posizione di girare le mie posizioni, in quanto se prende così piede l’idea che questa non sia proprio la crisi passeggera descritta in migliaia di articoli, vuol dire che io ed i pochi altri che non hanno esitato a passare per le cassandre di turno dovremmo forse rivedere le nostre convinzioni.
La vera e propria alluvione di vendite che ha flagellato venerdì i mercati azionari europei ed ancor di più quelli statunitensi, si è spostata lunedì mattina in Asia, dove, fatta la dovuta eccezione per quello strano mercato rappresentato dall’autodefinentesi borsa valori di Shanghai, in realtà poco più di un casinò all’aperto pronto a scoppiare al primo spillone in arrivo, gli scrosci di vendite si sono sommati agli scrosci ed il già depresso di suo Nikkey 225 ha lasciato sul terreno oltre il 4 per cento, mantenendosi a stento al di sopra della soglia dei 13 mila punti.
Né le cose sono andate meglio in Europa, dove, con il trascorrere delle ore, gli operatori in balia delle onde non hanno trovato di meglio da fare che attendere i dati provenienti dagli Stati Uniti d’America, in particolare il valore dell’ISM di febbraio che, per la seconda volta in tre mesi, si porta al disotto di quella quota 50 che indica espansione, per ritrovarsi con un misero 48,3 che, seppur di poco, è collocato nell’area che indica, in analogia peraltro con quasi tutti gli indicatori della specie diffusi in questi ultimi mesi, nell’area tanto temuta della recessione.
Gli operatori non si erano ancora ripresi da questa conferma della fase recessiva ormai in corso che è giunto il dato sulla spesa per costruzioni in gennaio, un dato in flessione dell’1,7 per cento, un tasso doppio rispetto al consensus degli analisti e che fa seguito al calo dell’1,3 per cento in dicembre, ponendosi appena al di sotto della peggior flessione registrata per questo tipo di spesa avvenuta nel lontano gennaio del 1994, mentre è appena il caso di ricordare il peso che l’attività edilizia ha sul prodotto nazionale lordo statunitense ed il ruolo che il settore ha sul fronte dell’occupazione.
La relativa calma piombata sui listini azionari statunitensi dopo la diffusione di queste notizie non proprio rassicuranti rappresenta una reazione forse più temibile di un tracollo, in quanto è indice di una sorta di incapacità ormai diffusa tra gli operatori di individuare una direzione, poco importa che sia verso l’alto o verso il basso, che è tipica dei momenti che precede quello che è noto come panic selling, un fenomeno in parte favorito dal panic cutting messo in atto da Ben Bernanke e compagni.
Non accenna a fermarsi la discesa del dollaro, giunto ormai stabilmente nell’area degli 1,52 contro l’euro e in quella dei 103 yen, grazie anche all’effetto boomerang derivante dai massicci e mai dichiarati interventi in suo sostegno effettuati in questi mesi dalle banche centrali, una discesa, peraltro, che, al di là di momentanei e fisiologici rimbalzi, dovrebbe proseguire sino a raggiungere il livello degli 1,70 dollari per euro e l’area dei 90-95 yen per dollaro, livelli essenziali per riequilibrare, per quanto solo parzialmente, il pauroso disavanzo di parte commerciale nei conti con l’estero, seppur con il rischio di aprire una voragine sul fronte dei movimenti di capitale.
Non è di poco significato la notizia che i carry traders starebbero allestando un numero crescente di operazioni che partono da un indebitamento in dollari con investimenti in valute forti e caratterizzate da tassi più elevati di quelli attualmente, ed ancor più in prospettiva, praticati sul biglietto verde, anche perché si tratta di altrettante scommesse sul proseguimento del deprezzamento nel tempo della valuta statunitense.
Va, inoltre, detto che un’eventuale riunione d’urgenza del G7 non potrebbe che prendere atto delle tendenze in corso, in analogia con quanto avvenne nella storica riunione del Plaza a New York tra i massimi rappresentanti del G3, allora costituito da Stati Uniti, Giappone e Germania e che fissò una sorta di paletti al ridimensionamento del dollaro all’indomani della dichiarazione unilaterale di inconvertibilità del dollaro in oro ai valori fissati a Bretton Woods e della conseguente crisi petrolifera, solo in parte legata al conflitto arabo-israeliano scoppiato e prontamente terminato nel 1973, ma in realtà avente origine nella aperta insoddisfazione dei paesi esportatori di petrolio per la riduzione di fatto dei loro proventi per un export espresso esclusivamente in dollari.
L’utilizzo sempre più massiccio di panieri di valute per la determinazione del prezzo del petrolio non è, tuttavia, in grado di risolvere il problema dell’ancoraggio dell’export di petrolio, così come di quello delle altre materie prime, in misura ancora prevalente al dollaro, così come non è assolutamente un caso che l’unico progetto di realizzazione di una borsa petrolifera con standards espressi in euro sia stata ideata in Iran poco prima che quel paese divenisse la bestia nera dell’amministrazione americana, anche se quest’ultima incontra sempre maggiori difficoltà nel convincere i riottosi paesi della Vecchia Europa ed incontra sempre maggiori resistenze anche da parte del suo più fedele alleato, la Gran Bretagna, che si è di recente dichiarata in favore di una via pacifica e diplomatica per il superamento delle tensioni con il regime di Teheran.