domenica 2 marzo 2008

Si profila un credit crunch da paura


E’ il caso di tornare sul bello ma un po’ tardivo articolo di Nouriel Roubini, economista solitamente fuori del coro paludato della corporazione, perché, pur essendo articolato su dodici tappe verso il baratro, batte giustamente su uno dei principali effetti della tempesta perfetta e, cioè, su quel gigantesco credit crunch che dovrebbe inaridire i pozzi ai quali si abbeverano tutti gli attori della vita economica, una stretta che, a sua volta, avrà effetti selettivi e drammatici sull’occupazione, sul reddito e sulle stesse prospettive non solo dei paesi maggiormente industrializzati, ma anche di quei tanti paesi che hanno nei mercati maturi il vero sbocco delle loro esportazioni.

Da qualche mese ormai, riporto l’analisi di Jan Hatzius, capo economista per gli Stati Uniti d’America del preveggente colosso globale Goldman Sachs, ma, soprattutto ricordo la sua apparentemente semplice formula che vede una proporzione di uno a dieci tra le perdite registrate dalle banche ed il taglio di finanziamenti all’economia necessario per mantenere inalterati e possibilmente rafforzare non solo i ratio patrimoniali imposti alle banche dalle normative vigenti, ma anche, come suggerisce il presidente del Financial Stability Forum, Mario Draghi, per fornire alle stesse banche i mezzi ed i margini di manovra necessari per soccorrere le sempre più fragili scialuppe che dovessero non essere più in grado di reggere ai marosi sempre più alti dell’attuale tempesta.

Consento facilmente con Roubini sia sullo schema fondamentale di ragionamento relativo all’analisi delle cause, e non solo perché analogo a quello da me proposto nell’articolo del 3 settembre dell’anno scorso che ha dato l’avvio al Diario, ma in quanto si tratta di un approccio oramai largamente condiviso, mentre ritengo che la sommatoria di problemi e la quantificazione delle potenziali perdite per singolo disastrato segmento del mercato finanziario globale lo dovrebbe portare largamente al di là di quei mille miliardi di dollari di perdite che, peraltro, da soli, determinerebbero un credit crunch complessivo non inferiore ai 10 mila miliardi di dollari che, sia detto per inciso, non sono di molto inferiori all’intera ricchezza prodotta in un anno dagli USA.

Come Nouriel sa benissimo, ed il suo articolo peraltro tradotto in modo francamente pessimo è lì a dimostrarlo, sarebbe veramente molto difficile che un problema che si annida in una montagna di almeno 25 mila miliardi di dollari di altezza possa produrre come risultato perdite per “soli” mille miliardi, una cifra che sarebbe pari esattamente al 5 per cento della montagna stessa, anche perché la svalutazione minima del totale dei bonds sotto esame, tra i quali vi è peraltro anche roba di prima qualità, non potrà che raggiungere un livello medio compreso, nella migliore delle ipotesi, tra il 10 ed il 20 per cento, il che farebbe ascendere le perdite complessive ad oscillare in una drammatica forchetta compresa tra i 2.500 ed i 5 mila miliardi, che, da sole, porterebbero il taglio dei finanziamenti all’economia ad essere cifrabili in un’altrettanto drammatica forchetta che vede come estremi 25 mila e 50 mila miliardi di dollari, peraltro con un dollaro certamente molto svalutato rispetto ai già depressi livelli attuali.

Comprendo perfettamente l’effetto devastante di queste stime, ma mi permetto sommessamente di ricordare che, già nel lontano mese di ottobre, riportavo le stime di Hatzius e di accreditati economisti con previsioni più pessimiste delle sue, stime che vedevano perdite comprese tra gli 800 ed i 2 mila miliardi di dollari, e tutto questo ben prima che emergessero e tornassero nei bilanci delle banche e delle compagnie di assicurazione assetts per centinaia di miliardi di dollari già nettati da consistenti perdite provenienti da soltanto alcuni dei SIV e Conduits allestiti a suo tempo dalle stesse, quando nessuno dubitava della solidità delle compagnie monoline, della qualità dei 3.200 miliardi di dollari di titoli emessi da Fannie Mae e Freddie Mac, sino a poco tempo fa considerati alla stregua dei Treasury Bonds, ma non coperti dalla necessaria garanzia del Tesoro USA, il braccio armato finanziario di un importante fondo di private equity (KKR) non aveva ancora dovuto pietire un certamente oneroso rescheduling delle scadenze per un numero imprecisato di miliardi dollari e risparmio ai lettori il fitto e doloroso seguito di novità non esaltanti intervenute dal mese considerato.

So benissimo che un’analisi siffatta presuppone l’immobilismo dei maggiori protagonisti del mercato finanziario globale sul fronte del rafforzamento del capitale per via interna o esterna, un rafforzamento che potrebbe, almeno in teoria, essere in grado di compensare o più che compensare le perdite derivanti dai titoli prodotti dalle fabbriche prodotto delle CIB di tutto il mondo e dagli effetti di queste svalutazioni sui titoli di ben altra natura che costituiscono il complemento a cento dei già menzionati e forse sottostimati 25 mila miliardi di dollari di stock di carta circolante o, meglio, alquanto immobilizzata tra banche, compagnie di assicurazione, residui SIV e Conduit, i forzieri della Federal Reserve, della BCE, della Bank of England e compagnia cantante di banche centrali di minori dimensioni, ma anche, putroppo, largamente presenti nei portafogli degli investitori istituzionali e degli investitori semplici.

Così come sono al corrente dei piani di investimento multipli degli attuali 80 miliardi di dollari da parte dei fornitissimi fondi governativi arabi, cinesi e dei loro omologhi facenti capo ai paesi di mezzo mondo, ma il problema è rappresentato dalla tecnicalità sino ad oggi seguita negli investimenti affluiti da questi fondi in direzione delle banche globali, investimenti che, nella maggior parte dei casi, hanno preso la forma di onerosissimi prestiti obbligazionari convertibili, se ciò accadrà, solo a certo e lungo tempo data , denari quasi “a strozzo” che stanno esercitando un effetto di dimostrazione sugli yields richiesti dagli altri investitori alla luce dell’ovvia considerazione che, come si dice giustamente a Napoli, “accà nisciuno è fesso”.

Spero proprio che le banche statunitensi e quelle di tutto il mondo non pensino, come insinuano le malelingue, realmente di alzare sino a 2 mila miliardi di dollari in questo modo, anche perché l’effetto depressivo sui finanziamenti all’economia, sia in termini di volumi che di prezzo richiesto, sarebbe forse peggiore di quello stimato sopra.

Ma quello che dovrebbe spaventare Nouriel e le tante anime belle che si stanno occupando di questa tempesta perfetta è rappresentato dalla vera incognita che ci troviamo, tutti, a fronteggiare e che è data dall’ipotesi, a mio modesto avviso una vera e propria illusione e neanche troppo pia, che i comportamenti della pletora di soggetti coinvolti siano improntati alla massima razionalità ed ispirati a quell’approccio cooperativo di cui, almeno sinora, non si sono viste tracce, anche perché pochi dei top manager si sono comportati in modo da risolvere il pur semplice dilemma del prigioniero che pur si studia nei corsi elementari di management, ma che viene sostituito da quel “to beggar my neighbour” imperante al primo maroso annunciante l’inizio di una tempesta, perfetta o meno, se non dal ben più prosaico si salvi chi può.