Con una mossa azzardata, ma in larga parte scontata, Ben Bernanke ha dato alle banche statunitensi ed a quelli globali altrove basate esattamente quello che le banche chiedevano a gran voce, allargando con decisione la vera e propria discarica di titoli della finanza strutturata che convertirà, con operazioni di durata pressoché mensile (28 giorni), per un ammontare che, almeno per ora, è limitato a 200 miliardi di dollari.
La mossa tanto attesa di Bernspan era diventata obbligatoria dopo l’apparente nulla di fatto del meeting di Basilea e la montante tensione sui mercati interbancari, con i tassi sulle cruciali scadenze ad uno ed a tre mesi ormai largamente al di sopra dei livelli toccati il 9 agosto dell’anno scorso, chiarendo, con i fatti, che in quella riunione era stata trovata una intesa tra Federal Reserve, Banca Centrale Europea e la Swiss National Bank, un’intesa che prevede che le ultime due entità si facciano carico di un trasferimento di fondi per complessivi 36 miliardi di dollari in favore della Fed, mentre è fuori gioco la Bank of Japan a causa dell’inusuale scontro politico in corso sul candidato governativo alla carica di Governatore, bocciato ieri dalla camera alta nipponica.
Verrebbe voglia di tralasciare qualsiasi commento sull’altrettanto prevedibile dei mercati azionari statunitensi, e su quella altrettanto spumeggiante reazione del comparto finanziario, pari, forse, solo a quella che ha fatto seguito ai guai giudiziari e, soprattutto, reputazionali dell’odiato ex sceriffo di New York, Eliot Spitzer, euforia condivisa sui mercati europei e che si è presto trasferita su quelli asiatici, consentendo al Nikkey 225 di ignorare il colpo di mano dell’opposizione al Senato che mette in discussione, a pochi giorni dalla scadenza del vecchio numero uno della BoJ la possibilità di una nomina bipartisan di cui si sentiva l’assoluto bisogno.
La mossa di Bernspan e dei suoi complici assisi al vertice delle banche centrali di oltreoceano non coglie assolutamente di sorpresa i miei pochi lettori, informati da tempo del ruolo affatto neutrale dei banchieri centrali in questa tempesta perfetta, in quanto, sin da agosto 2007, i nostri hanno fatto la scelta di non punire il moral hazard, scegliendo, invece, di cercare di togliere le castagne dal fuoco agli alquanto disperati banchieri globali, accettando in garanzia di prestiti complessivamente di dimensioni mostruose fette sempre più consistenti di carta straccia rappresentata da quei titoli della finanza strutturata che nessuno oramai mostra più di gradire, con l’aggravante che questo scambio di denaro, ed ora di appetibili titoli del Tesoro statunitense, è avvenuto a prezzi del tutto irrealistici ed utilizzando tutta la strumentistica, inclusa l’obsoleta operazione di sconto presso la Fed eseguita in modo riservato, così da evitare di esporre al pubblico ludibrio le blasonate banche che ricorrevano a questo aiutino, spesso al ritmo di mezzo miliardo di dollari al giorno cadauna.
Tra i commenti caustici degli analisti e dei giornalisti statunitensi non embedded, mi ha sinceramente colpito l’immagine di un Bernspan, implicitamente paragonato ad un prestigiatore dalle qualità non proprio eccelse, che, di fronte ad un pubblico annoiato per la performance non tropo brillante, fruga nella sua capace borsa per tirare fuori il trucco che riuscirà certamente a strappare l’applauso del pubblico pagante di cui ha finalmente catturato l’attenzione; peccato, tuttavia, che si tratta di uno degli ultimi colpi della pistola del cow boy Bernspan e che i cattivi posti al di fuori del saloon siano in numero soverchiante e muniti di fucili a ripetizione ben carichi di munizioni.
Quando saranno smaltiti i fumi della sbornia e saranno finiti i festini iniziati con il triste show televisivo dello sventurato Spitzer e proseguiti ieri per la mossa azzardata di Bernspan e complici, credo proprio che qualcuno, come è doveroso in questo mestiere, faccia due conti e spieghi che l’assorbimento di titoli spazzatura (senza offesa per gli junk bonds) promesso e quello già effettuato secondo stime attendibili da agosto in poi non copre nemmeno il 5 per cento della montagna di titoli della finanza più o meno strutturata in circolazione e che sforzi ulteriori e più significativi siano del tutto fuori della portata di alcuno.
Da lunghi mesi, non mi stanco, peraltro, di ripetere che, se non sono chiare le cause della tempesta perfetta, le misure adottate dai disperati banchieri centrali e dagli altrettanto alla frutta governanti dei paesi maggiormente industrializzati rischiano di avere il cosiddetto effetto boomerang che, migliaia di miliardi di dollari di sforzi dopo, è perfettamente visibile sul mercato finanziario globale, con un numero sempre maggiore di entità di ogni natura e dimensione ormai sempre più chiaramente a rischio di default.
Molto sommessamente, mi permetto, infatti, di chiedere quale sia lo stato di salute odierno delle maggiori banche globali, dei fondi di private equity, delle compagnie di assicurazioni e in particolare del ramo monoline statunitense, i sempre più disperati carry traders ed i sempre più esangui hedge funds, per non parlare della clientela corporate ormai in crisi di astinenza per l’assenza delle consuete dosi di Commercial papers e di Corporate Bonds? E’ più vicina o più lontana l’ora del crack rispetto a quanto lo fosse nei torridi mesi dell’estate dell’anno scorso? E’ maggiore o minore la reputazione e la credibilità delle donne e degli uomini che da allora lavorano senza soste nelle sale operative e nei board delle banche centrali?
Capisco perfettamente che si tratta di domande oltremodo sgradite dagli operatori e dagli investitori di tutto il mondo, una massa sterminata di persone che è pronta a credere a qualsiasi mossa, a qualsiasi trucco del prestigiatore di turno, ma ritengo con altrettanta fermezza che, quando si vede il crinale del burrone, corra l’obbligo di avvertire la mandria alquanto impazzita che corre il rischio imminente e concreto di precipitarvi, così come credo che non vi siano ragioni di opportunità o di sicurezza personale che costringano a tingere di rosa quello che rosa con ogni evidenza non è.
Esistono due modi di interpretare il ruolo di previsore nell’ambito dei mercati finanziari, più o meno globali, quello prevalente coincide più o meno con la figura dell’analista, poco importa se tecnico o fondamentale, spesso un ottimo conoscitore dei dati ed estrapolatore di verosimili tendenze di breve periodo basate sui dati stessi, l’altro, brillantemente definito dagli anglosassoni con il temine indiano di guru, prevede un approccio meno continuista e deve prendere in esame la possibilità dell’uscita dal mazzo delle cosiddette wild cards, uscita che è normalmente premessa di salti spesso difficilmente prevedibili ed assolutamente non estrapolabili da alcuna serie statistica e da nessun modello econometrico gestibile, un mestiere arduo e spesso ingrato, anche perché, come è a tutti largamente noto, il futuro resta prevalentemente in mente dei Non c’è forse bisogno di dire che, nella mia vita professionale, fuori e dentro le sale operative, fuori e dentro le redazioni economiche e nel mio attuale incarico, ho sempre scelti il secondo, anche perché francamente inadatto a quello, pur rispettabile, dell’analista sia fondamentale che tecnico.
La mossa tanto attesa di Bernspan era diventata obbligatoria dopo l’apparente nulla di fatto del meeting di Basilea e la montante tensione sui mercati interbancari, con i tassi sulle cruciali scadenze ad uno ed a tre mesi ormai largamente al di sopra dei livelli toccati il 9 agosto dell’anno scorso, chiarendo, con i fatti, che in quella riunione era stata trovata una intesa tra Federal Reserve, Banca Centrale Europea e la Swiss National Bank, un’intesa che prevede che le ultime due entità si facciano carico di un trasferimento di fondi per complessivi 36 miliardi di dollari in favore della Fed, mentre è fuori gioco la Bank of Japan a causa dell’inusuale scontro politico in corso sul candidato governativo alla carica di Governatore, bocciato ieri dalla camera alta nipponica.
Verrebbe voglia di tralasciare qualsiasi commento sull’altrettanto prevedibile dei mercati azionari statunitensi, e su quella altrettanto spumeggiante reazione del comparto finanziario, pari, forse, solo a quella che ha fatto seguito ai guai giudiziari e, soprattutto, reputazionali dell’odiato ex sceriffo di New York, Eliot Spitzer, euforia condivisa sui mercati europei e che si è presto trasferita su quelli asiatici, consentendo al Nikkey 225 di ignorare il colpo di mano dell’opposizione al Senato che mette in discussione, a pochi giorni dalla scadenza del vecchio numero uno della BoJ la possibilità di una nomina bipartisan di cui si sentiva l’assoluto bisogno.
La mossa di Bernspan e dei suoi complici assisi al vertice delle banche centrali di oltreoceano non coglie assolutamente di sorpresa i miei pochi lettori, informati da tempo del ruolo affatto neutrale dei banchieri centrali in questa tempesta perfetta, in quanto, sin da agosto 2007, i nostri hanno fatto la scelta di non punire il moral hazard, scegliendo, invece, di cercare di togliere le castagne dal fuoco agli alquanto disperati banchieri globali, accettando in garanzia di prestiti complessivamente di dimensioni mostruose fette sempre più consistenti di carta straccia rappresentata da quei titoli della finanza strutturata che nessuno oramai mostra più di gradire, con l’aggravante che questo scambio di denaro, ed ora di appetibili titoli del Tesoro statunitense, è avvenuto a prezzi del tutto irrealistici ed utilizzando tutta la strumentistica, inclusa l’obsoleta operazione di sconto presso la Fed eseguita in modo riservato, così da evitare di esporre al pubblico ludibrio le blasonate banche che ricorrevano a questo aiutino, spesso al ritmo di mezzo miliardo di dollari al giorno cadauna.
Tra i commenti caustici degli analisti e dei giornalisti statunitensi non embedded, mi ha sinceramente colpito l’immagine di un Bernspan, implicitamente paragonato ad un prestigiatore dalle qualità non proprio eccelse, che, di fronte ad un pubblico annoiato per la performance non tropo brillante, fruga nella sua capace borsa per tirare fuori il trucco che riuscirà certamente a strappare l’applauso del pubblico pagante di cui ha finalmente catturato l’attenzione; peccato, tuttavia, che si tratta di uno degli ultimi colpi della pistola del cow boy Bernspan e che i cattivi posti al di fuori del saloon siano in numero soverchiante e muniti di fucili a ripetizione ben carichi di munizioni.
Quando saranno smaltiti i fumi della sbornia e saranno finiti i festini iniziati con il triste show televisivo dello sventurato Spitzer e proseguiti ieri per la mossa azzardata di Bernspan e complici, credo proprio che qualcuno, come è doveroso in questo mestiere, faccia due conti e spieghi che l’assorbimento di titoli spazzatura (senza offesa per gli junk bonds) promesso e quello già effettuato secondo stime attendibili da agosto in poi non copre nemmeno il 5 per cento della montagna di titoli della finanza più o meno strutturata in circolazione e che sforzi ulteriori e più significativi siano del tutto fuori della portata di alcuno.
Da lunghi mesi, non mi stanco, peraltro, di ripetere che, se non sono chiare le cause della tempesta perfetta, le misure adottate dai disperati banchieri centrali e dagli altrettanto alla frutta governanti dei paesi maggiormente industrializzati rischiano di avere il cosiddetto effetto boomerang che, migliaia di miliardi di dollari di sforzi dopo, è perfettamente visibile sul mercato finanziario globale, con un numero sempre maggiore di entità di ogni natura e dimensione ormai sempre più chiaramente a rischio di default.
Molto sommessamente, mi permetto, infatti, di chiedere quale sia lo stato di salute odierno delle maggiori banche globali, dei fondi di private equity, delle compagnie di assicurazioni e in particolare del ramo monoline statunitense, i sempre più disperati carry traders ed i sempre più esangui hedge funds, per non parlare della clientela corporate ormai in crisi di astinenza per l’assenza delle consuete dosi di Commercial papers e di Corporate Bonds? E’ più vicina o più lontana l’ora del crack rispetto a quanto lo fosse nei torridi mesi dell’estate dell’anno scorso? E’ maggiore o minore la reputazione e la credibilità delle donne e degli uomini che da allora lavorano senza soste nelle sale operative e nei board delle banche centrali?
Capisco perfettamente che si tratta di domande oltremodo sgradite dagli operatori e dagli investitori di tutto il mondo, una massa sterminata di persone che è pronta a credere a qualsiasi mossa, a qualsiasi trucco del prestigiatore di turno, ma ritengo con altrettanta fermezza che, quando si vede il crinale del burrone, corra l’obbligo di avvertire la mandria alquanto impazzita che corre il rischio imminente e concreto di precipitarvi, così come credo che non vi siano ragioni di opportunità o di sicurezza personale che costringano a tingere di rosa quello che rosa con ogni evidenza non è.
Esistono due modi di interpretare il ruolo di previsore nell’ambito dei mercati finanziari, più o meno globali, quello prevalente coincide più o meno con la figura dell’analista, poco importa se tecnico o fondamentale, spesso un ottimo conoscitore dei dati ed estrapolatore di verosimili tendenze di breve periodo basate sui dati stessi, l’altro, brillantemente definito dagli anglosassoni con il temine indiano di guru, prevede un approccio meno continuista e deve prendere in esame la possibilità dell’uscita dal mazzo delle cosiddette wild cards, uscita che è normalmente premessa di salti spesso difficilmente prevedibili ed assolutamente non estrapolabili da alcuna serie statistica e da nessun modello econometrico gestibile, un mestiere arduo e spesso ingrato, anche perché, come è a tutti largamente noto, il futuro resta prevalentemente in mente dei Non c’è forse bisogno di dire che, nella mia vita professionale, fuori e dentro le sale operative, fuori e dentro le redazioni economiche e nel mio attuale incarico, ho sempre scelti il secondo, anche perché francamente inadatto a quello, pur rispettabile, dell’analista sia fondamentale che tecnico.