mercoledì 26 marzo 2008

Non sparate sul pianista!


La Federal Deposit Insurance Corp, l’organismo federale incaricato di garantire, ovviamente entro i limiti stabiliti dalla legge, i depositi dei risparmiatori statunitensi, ha deciso di assumere ulteriori 140 addetti destinandoli alla divisione che si occupa di “maneggiare” i fallimenti bancari, un incremento che rappresenta una crescita del 60 per cento degli addetti della FDIC aventi questa specifica mission nell’ambito dell’organismo, una divisione, peraltro, che dalla ormai lontana crisi delle casse di risparmio degli anno Novanta, quando nei primi due anni della decade fallirono ben 502 banche statunitensi, ha avuto in realtà ben poco da fare.

Come ha avuto modo di dire il Chief Operating Officer della FDIC, John Bovenzi, “vogliamo essere certi di essere ben preparati”, aggiungendo che gli impieghi saranno di tipo temporaneo e che la loro base operativa sarà a Dallas (Texas), anche se mi sento francamente di rassicurare gli interessati sulla tutt’altro che precaria loro collocazione, alla luce della prevedibile durata della tempesta perfetta e, quindi, della loro specifica indispensabilità per l’ente che li ha appena assunti.

Sono, peraltro, costretto nuovamente a soffermarmi sui travagli infiniti del settore immobiliare statunitense, in quanto il seguitissimo rapporto redatto sa Standard & Poor’s/Case-Schiller ha reso noto che, in gennaio, la flessione su base annua dei prezzi delle case nelle venti aree metropolitane monitorate è stato dell’11,4 per cento, con punte che arrivano a sfiorare il 20 per cento nelle aree di Las Vegas e di Miami, ma non si è scherzato neanche a Phoenix (-18,2 per cento), a San Diego (-16,7), a Los Angeles (-16,5), a Detroit (-15,1), a Tampa (-15,0) ed a San Francisco (-13,2), mentre va in controtendenza l’area di Charlotte (North Carolina), che riesce a spuntare un progresso dell’1,8 per cento sulle ragioni del quale si stanno accapigliando i soliti analisti del giorno dopo.

E’ quasi superfluo sottolineare l’effetto che il meltdown immobiliare sta avendo sulle aspettative dei cittadini americani, poco importa se si tratti di imprenditori o di semplici consumatori, effetto più che confermato dal vero e proprio tracollo del Consumer Confidence, un indice tonfato in marzo a 64,5 dal non proprio stellare 76,4 di febbraio, portandosi così al livello più basso degli ultimi cinque anni, mentre ricordo che si tratta di un indicatore elaborato dal Conference Board e che, per unanime valutazione degli esperti, anticipa l’andamento dei consumi, un andamento che, alla luce del continuo declino registrato a partire dal luglio 2007, non dovrebbe rivelarsi proprio brillante.

Il combinato disposto delle due notizie ha spinto numerosi analisti ed esperti a dichiarare ormai certa la variazione negativa dell’indicatore che misura la ricchezza nazionale sia nel primo che nel secondo trimestre di questo anno bisesto, cosa che, lo ricordo sommessamente, rappresenta anche tecnicamente uno scenario recessivo, previsione ovviamente condita da notevole ed alquanto infondato ottimismo per quanto ci aspetta nella seconda metà di questo anno, che è il secondo, almeno in termini di millesimo, della navigazione dell’economia statunitense e di quella del resto nel pianeta tra i procellosi marosi della tempesta perfetta in corso ormai da quasi otto mesi, che sarebbero poi un po’ di più ove si retrodati alle difficoltà incontrate da Hong Kong Shanghai Banking Corp. Nel ormai lontanissimo febbraio dell’anno scorso.

Nell’orami abituale gioco di spararsi addosso nel quale si dilettano da mesi gli analisti delle diverse investment banks statunitensi, è ora la volta di merrill Lynch di fungere da vittima sacrificale degli strali degli agguerriti analisti al soldo delle sua altrettanto inguaiate concorrenti, mentre nel ruolo di killer brilla la performance della solita J.P. Morgan Chase che, e non entro volutamente nei particolari, prevede una netta refisione al ribasso degli utili prospettici di Merrill, e , visto che ci si trova, non perde l’occcasione per parlare male anche di Bank of America, Suntrust e PNC, ma non temete, perché i prodi analisti al soldo di Merrill non perderanno tempo nel rendere la pariglia all’odiatissima rivale.

Già, perché i guai della banca che eredita il nome e forse le fortune delle due casate dei Morgan e dei Rockfeller non credo proprio siano finiti con la quintuplicazione dell’offerta davvero vergognosa che, con la complicità del solito Bernspan, aveva avanzato per raccogliere le spoglie dell’orso di Stearns, anche perché il valore dell’azione di Bear si ostina a non voler collimare con miseri dieci dollari offerti, anche grazie allo scoop del New York Times o, meglio, alle manipolazioni che le agenzie di stampa hanno operato sullo stesso, di fronte alle reazioni infuriate degli azionisti e dei dipendenti, a loro volta importanti azionisti di Bear.

Come ormai accade un giorno sì e l’altro pure, Bernspan e complici non hanno fatto mancare la liquidità necessaria, ieri si è trattato della solita tranche da 50 miliardi di dollari ma sono stati 260, sempre miliardi, dall’inizio dell’anno, a far andare alquanto faticosamente avanti questo circo che qualcuno si ostina ancora a chiamare mercato, un aggregato che, almeno nel suo cruciale segmento interbancario, non sembra proprio saperne di tornare a quei livelli minimi di fiducia reciproca che potrebbe far scendere i relativi tassi, tassi che anche ieri sono pervicacemente al rialzo sia sull’euribor che sul libor

Non paghe di aver finalmente trovato, nella Fed (ma anche nella BCE e nella BoE) una capace discarica per le loro rispettive montagnole di titoli della finanza strutturata, le banche statunitensi di ogni ordine e grado, ma anche quelle entità che banche proprio non sono, si ostinano, infatti, a non fidarsi delle proprie rivali e concorrenti, mentre è stata scoperta una centrale operativa in un hedge fund specializzata nello spargere voci e rumors volti ad influenzare i corsi di entità sulle quali lo stesso hedge era opportunamente posizionato, al fine dichiarato di raschiare qualche briciola, si fa per dire ovviamente, dal sempre più lucido fondo del barile.

Mentre la spesa complessiva per la guerra in Irak, e l’Afghanistan?, sembra sia giunta alla stellare cifra di 2 mila miliardi di dollari, ed è doveroso dire soltanto per ora, si scopre, negli Stati Uniti d’America, che non vi sono più fondi sufficienti per secondari programmi di assistenza quali Medicare e la previdenza, ovviamente nella versione pubblica un po’ pauperistica, né credo che, qualsiasi sarà l’esito della battaglia presidenziale e di quella per il rinnovo del Congresso e di parte del Senato statunitensi, le cose andranno in modo realmente diverso per questi retaggi di un welfare del quale sembra sia ancora aperta la gara a chi se ne vergogna di più.