Come anticipato l’altro ieri dal dato sugli occupati nel settore privato nel mese di giugno elaborato da un centro di ricerca specializzato, Automatica Data Processing, che registrava un calo di 79 mila addetti, un livello quattro volte circa superiore rispetto alle previsioni degli analisti, il Non Farm Payrolls sempre relativo al mese di giugno non ha destato grandi sorprese, in quanto la flessione di 62 mila occupati, pur superiore ai 40 mila circa previsti dal consensus degli analisti, non fa che segnalare lo sforzo governativo statunitense di porre un argine alla flessione dei posti di lavoro nell’industria, nei servizi e nelle costruzioni in atto da almeno un anno, mediante opportune assunzioni di insegnanti, medici e paramedici a libro paga dello stato federale o delle variegate entità pubbliche o semipubbliche di cui pullulano gli Stati Uniti d’America, la nazione più potente del mondo che, anche a causa della tempesta perfetta in corso, sta scoprendo alquanto improvvisamente le virtù dell’intervento pubblico in economia.
La flessione delle buste paga, pur significativa, non rende bene l’idea di quanto sta avvenendo negli USA, in quanto, come ho avuto modo di segnalare più volte nel Diario della crisi finanziaria, va posta molta attenzione alle molto più rilevanti e continue revisioni al rialzo dei dati segnalati in precedenza, molto sensibile, ad esempio, nel dato relativo al mese di aprile che ha visto quasi triplicarsi il numero dei posti di lavoro persi, il che rende molto più significativo, per quanto a sua volta provvisorio, il dato semestrale che segnala come siano stati persi 432 mila posti di lavoro, con una media mensile di 72 mila occupati in meno, il che significa, sempre al netto del ruolo anticiclico svolto dal settore pubblico, che la perdita di occupati nei settori maggiormente colpiti è stata in media di 100 mila unità almeno, per un saldo complessivo che si aggira, tra gennaio e giugno, introno alle 600 mila buste paga in meno.
Non c’è che dire, è ormai evidente l’impatto tutt’altro che blando dell’impatto della tempesta perfetta sull’economia reale, anche perché non pochi dei nuovi disoccupati sono rappresentati da persone alle prese con il dramma della perdita dell’abitazione a causa del livello in molti casi insostenibile dei mutui una volta esaurito l’effetto del periodo di grazia biennale o triennale, mentre non sono pochi quanti sono vessati dalle sempre più perentorie richieste di rientro da parte delle banche per le spese eccessive effettuate mediante le micidiali carte di credito revolving o quelle a restituzione immediata (né va dimenticata la pratica sempre più invalsa tra le società emittenti di carte di punire con tassi anche superiori al 30 per cento i ritardi, anche minimi, nei pagamenti), oppure mediante l’utilizzo di crediti bancari più o meno finalizzati, che, al pari dei mutui, venivano offerti, sino a pochi mesi orsono, mediante pratiche di marketing molto aggressive.
Tanto per gradire, sempre ieri il prezzo del petrolio, questa volta con epicentro nel mare del Nord, ha toccato i 146 dollari al barile, proprio mentre l’ex numero uno di Goldman Sachs ed attuale ministro del tesoro USA, Henry Paulson, affermava alquanto perentoriamente che non esistevano misure efficaci in grado di calmierare il prezzo del petrolio, solo apparentemente ignorando che basterebbe portare il margine necessario ad operare negli strumenti derivati a quelli richiesti nelle vendite allo scoperto per rendere molto più difficoltoso quella specie di gioco da ragazzi nel quale si stanno massicciamente esercitando le banche di ogni ordine e specie, i fondi di investimento ed i fondi pensione, gli hedge fund ed una vera e propria moltitudine di investitori di ogni dimensione, in gran parte entità che stanno cercando disperatamente di rifarsi delle perdite più o meno rilevanti derivanti dagli effetti, spesso devastanti, della crisi finanziaria in corso.
Non credo proprio sia il caso di dilungarmi nuovamente sui rischi che questi operatori stanno correndo in prossimità di questi livelli stellari, non solo e neppure tanto per l’approssimarsi della data in cui si riuniranno gli otto grandi del pianeta nel vertice che si svolgerà in Giappone, quanto perché la maggior parte di loro non dispongono del know how, della strumentazione tecnica, nonché della possibilità di operare 24 ore su 24 che consentono alle entità di maggiori dimensioni di decidere il livello raggiunto il quale è opportuno girare, senza preavviso alcuno, le loro gigantesche posizioni, lasciando la miriade di investitori piccoli e medi veramente nei guai.
La seduta prefestiva di ieri negli Stati Uniti, con Wall Street che ha osservato un orario di contrattazione ridotto, non ha registrato andamenti particolarmente degni di nota, in quanto la maggior parte degli operatori ha cercato di evitare di lasciare posizioni aperte prima del week end nel quale cade la festa dell’indipendenza delle colonie britanniche dalla madre patria al termine della vittoriosa rivoluzione americana contro le pretese di Sua Maestà britannica giudicate insopportabili dai suoi ex sudditi.
Come era largamente previsto, il germanizzato Jean Claude Trichet ed il manipolo di neotemplari saldamente insediati nel board della Banca Centrale Europea hanno battuto il primo colpo sulla più volte annunciata strada di rialzo del tasso di riferimento relativo all’area dell’euro, portando il livello che era rimasto invariato per almeno due anni dal 4 al 4,25 per cento, un livello che, come ho più volte ricordato, è del tutto insufficiente per porre una distanza di sicurezza da un tasso di inflazione che ha già raggiunto, secondo i dati non certo sovrastimati diffusi di recente dall’Eurostat, il 4 per cento e minaccia di salire ancora e in fretta al di sopra di tale cruciale soglia psicologica.
Il pronto rientro delle critiche del ministro delle finanze tedesco all’operato della BCE, non riduce il clima di tensione esistente tra i governi dei paesi dell’area euro nei confronti dell’insensibilità dimostrata da Trichet e compagni nei confronti della difficile fase economica in corso, anche mi permetto di osservare che i risultati della politica non accomodante sin qui seguita dalla BCE non ha certo fatto più danni di quanti ne abbia certamente prodotti la sindrome di panic cutting che afflige dall’agosto dello scorso anno Bernspan e complici che nonostante tagli dei tassi sempre più aggressivi, sino a portarli ad un livello reale negativo per circa due punti percentuali, si trovano ancora con l’economia stagnante ed con il settore finanziario statunitense in pieno marasma.
Il livello raggiunto dall’euribor nelle scadenze comprese tra i 9 ed i 12 mesi segnalano che gli operatori non credono in alcun modo che quella di ieri sia una mossa isolata, poco più di una blanda forma di moral suasion volta a ridare una maggiore tranquillità ai mercati, con particolare riferimento a quel mercato interbancario che proprio non ne vuole sapere di ridurre l’anomale e rilevante spread esistente tra il livello dei tassi ufficiali e quello derivante dal persistente clima di sfiducia reciproca esistente tra le banche europee, non che tale clima si presenti molto diverso tra quelle statunitensi e quelle asiatiche,
Non so assolutamente cosa faranno Bernspan e gli altri banchieri centrali dei paesi maggiormente industrializzati, ma sono certo che la BCE non si fermerà prima di aver portato la distanza tra il tasso di riferimento ed il CPI dell’area euro ad almeno tre quarti di punto percentuale di distanza.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/