giovedì 10 luglio 2008

Che fine ha fatto il rapporto Draghi?


Risoltosi in un nulla di fatto il tanto atteso vertice giapponese del G8, ho cercato in ogni modo di scoprire che fine avesse fatto il piatto forte della riunione, la presentazione, cioè, di quel rapporto finale sulle cause della crisi finanziaria in corso e, soprattutto, sui rimedi per cercare di uscirne in qualche modo, un testo denso di analisi e di raccomandazioni elaborato dal Financial Stability Forum e che il suo presidente, l’italiano Mario Draghi, avrebbe dovuto presentare agli otto leader dei paesi più importanti del pianeta.

Non credo che l’ingiuria mossa dal conterraneo e ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, uno che ci va giù talmente pesante da avere definito l’affidamento ad uomini espressione delle banche centrali di un compito così delicato equivalente a mettere dei topi a guardia del formaggio, sia alla base del rinvio della consegna del prezioso dattiloscritto, anche perché si mormora in giro che una delle caratteristiche distintive di Draghi e di molti dei suoi colleghi consista nell’essere dotati di nervi d’acciaio.

D’altra parte, che le cose non si stiano mettendo proprio bene è stato ben illustrato ieri dal presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, in arte Bernspan, che ha spostato alla fine dell’anno prossimo la presumibile interruzione dell’azione continuata ed aggravata di sostegno al moral hazard, e si è pubblicamente interrogato sulle modalità e le procedure che lui, Effe O Ixs della Securities and Exchange Commission e l’ineffabile ed imperturbabile ministro del Tesoro statunitense dovranno seguire di fronte ai dissesti prossimi venturi di qualche altra Investment Bank o di qualche banca più o meno globale, avendo forse lui stesso compreso che quelle seguite nel caso di Bear Stearns non sono state proprio del tutto ortodosse, così come sono state talmente poco comprese che è da più di tre mesi che non perde occasione per spiegare perché non poteva fare che quello che ha fatto.

Forse, se ripassasse le lezioni sulle crisi finanziarie che ha impartito per decenni a generazioni di studenti della prestigiosa facoltà di economia della Università di Princeton, qualche idea sugli errori commessi, peraltro in folta e qualificata compagnia, gli verrebbe pure, ma non oso pensare alla drammatica crisi di identità che il mite professore potrebbe subire, rendendosi infine conto degli errori commessi cercando di somigliare a quel bravo clarinettista che per ben diciannove anni ha fatto credere di essere il presidente della Fed, quell’Alan Greenspan che ha avuto l’onore di essere confermato da ben quattro presidenti degli Stati Uniti d’America, Ronald Reagan, George Bush Sr., Bill Clinton e George Bush Jr., il vero responsabile di quel micidiale mix di deregolamentazione e finanziarizzazione che ci ha portati dritti, dritti, ad una tempesta perfetta che fa impallidire quella che si verificò nel 1907.

Venendo alle piacevolezze quotidiane, ho scoperto solo oggi che una delle poche banche prevalentemente vocate all’attività nel settore del mortgage rimaste miracolosamente in piedi e non soggette alle procedure della legge fallimentare, IndyMac Bancorp, sta per chiudere i battenti, almeno a giudicare dal fatto che l’azione non riesce a tenere i 40 centesimi di dollaro dai 50 dollari che riusciva a quotare non più tardi dell’anno scorso, una banca di non infime dimensioni che rischia seriamente di dovere fare presidiare dalla guardia nazionale i propri sportelli, al fine di evitare il ripetersi delle tristissime scene cui abbiamo assistito l’estate scorsa in Gran Bretagna, con la vera e propria corsa dei depositanti della poi nazionalizzata Northern Rock a cercare di riprendere i propri risparmi.

Ancora una volta, Effe O Ixs (al secolo Christopher Fox, numero uno della Sec) ha perso una buona occasione per dimostrare a tutti noi che sta ancora vigilando sui mercati azionari e che le duecento persone che ha assunto in fretta e furia per vigilare su quanto sta accadendo nel settore bancario (l’apposita sezione era stata svuotata del tutto qualche anno orsono) stanno realmente facendo qualcosa.

Dopo una breve tregua durata un numero molto esiguo di sedute a cavallo dell’Indipendence Day, David Einhorn e la sua combriccola di miliardari impegnati a giocare al ribasso contro un certo numero di Investment Banks e di banche più o meno globali si sono nuovamente messi al lavoro, come si evince peraltro facilmente dal profondo rosso che caratterizza oggi Lehman Brothers e le sue consorelle, forse inferociti dalla disperata mossa dei vertici di Lehman Bros. che hanno deciso pochi giorni fa di alzare i bonus dei dipendenti della banca di investimenti sopravvissuti ai precedenti tagli occupazionali di un 20 per cento circa.

Non voglio infierire sulla traballante banca extracomunitaria denominata UBS, anche perché trovo veramente disdicevole sparare sulla croce rossa e sugli gnomi svizzeri, veramente tartassati dalla concorrenza delle veramente impenetrabili banche di Hong Kong e di Singapore, territori dotati di una magistratura abituata da sempre a respingere al mittente e senza nemmeno aprire le buste le inopportune rogatorie dei magistrati di tutto il mondo alla caccia di notizie sui conti di qualche loro concittadino un po’svelto nell’oltrepassare il confine esile che separa il lecito dall’illecito, banche che non si farebbero certo intimorire dalle autorità statunitensi che cercano di mettere le mani sulle immense somme sfuggite al fisco o provenienti dal riciclaggio di denaro sporco o legate al terrorismo internazionale.

Sta ancora reggendo il bluff orchestrato dai vertici della oramai tecnicamente fallita e pluridegradata Ambac, che, dopo aver gridato ai quattro venti di avere trovato il modo di aggirare il non lieve handicap derivante dai downgrade subiti e da quelli prossimi venturi, spostando capitali per poco meno di un miliardo di dollari verso una sussidiaria comprata non si sa bene per quale motivo qualche anno fa e cercando in ogni modo di farle ottenere quella tripla A che come Ambac non riotterrà mai (ma che paese è mai quello nel quale una parte può valere più del tutto?), ha registrato ieri un gigantesco balzo in avanti della sua quotazione (che è sempre pari al 5 per cento circa del massimo delle ultime 52 settimane), ma che oggi sta faticando e non poco per non riprendere la strada delle discesa.

Anche se si tratta di variazioni percentuali di non grande rilievo, non manca di colpire il fatto che per la prima volta nella loro storia, gli hedge funds statunitensi hanno registrato una flessione nel primo semestre dell’anno, un evento che rappresenta una vera e propria onta per delle entità abituate a registrare crescite costanti e di notevoli dimensioni del valore delle proprie quote, cosa che fa riflettere visto che non è ancora scoppiata l’iperbolla speculativa petrolifera.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.

Marco Sarli
Responsabile Ufficio Studi UILCA