Il fulmineo innamoramento tra le due figure che per anni erano state davvero le più antitetiche nel panorama del mutante sistema bancario italiano, l’ex enfante prodige del credito e della finanza, Alessandro Profumo, e l’uomo per tutte le stagioni nel tempo divenuto l’anziano banchiere di marino, Cesare Geronzi, ha, come tute le cose apparentemente strane delle vita, ragioni profonde che nascono nei propri rispettivi ambiti, ma che non hanno impedito che il secondo venisse prontamente allontanato da ogni incarico veramente decisionale nel gruppo risultante, oggetto dello stesso dorato esilio alla guida di Mediobanca cui venne, in ben altri tempi, destinato l’allora giovane Enrico Cuccia dal presidente della Banca Commerciale Italiana, il mai troppo compianto Mattioli che di Cuccia temeva in primis le capacità scarsamente controllabili ed, in secundis, la parentela acquisita, via matrimonio, con il fondatore dell’IRI, Beneduce, vera mente economica del regime fascista.
L’arrivo di Profumo in quello che allora era il Credito Italiano presieduto da Rondelli avvenne in qualche modo in sordina, in quanto smessi i panni di consulente della Mc Kinsey, l’allora giovanissimo manager fu reclutato come responsabile della pianificazione e controllo di gestione della banca, per scalarne rapidamente tutte le posizioni fino a diventare uno dei più giovani amministratori delegati in un settore creditizio nel quale a posizioni simili si ascendeva dopo trenta o quaranta anni di onorata carriera iniziata, come si suol dire, al pezzo.
Ma la vera fortuna di Profumo, oltre a quella di avere avuto un mentore come il collaudatissimo Rondelli, trae origine dal panico che si diffuse tra i vertici delle fondazioni originate dalle previsioni della Legge Amato-Carli, ma soprattutto dalle ferme direttive emanate dall’allora ministro del Tesoro ed ex Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, un clima che creò le premesse che convinsero i decision makers delle fondazioni Cassa di Risparmio di Verona, Cassa di Risparmio di Torino e la cosiddetta Friuladria ad aderire convinti al progetto che avrebbe dato vita ad Unicredito Italiano, in aggiunta alla partecipazione rilevantissima che l’ex banca di interesse nazionale aveva acquisito nel Credito Romagnolo che, dopo una serie di acquisizioni su base locale, prese il nome più sbrigativo di Rolo, una banca che rappresentò, sotto la guida di tal Farsetti, la vera e propria gallina dalle uova d’oro del gruppo.
Come già nel caso di Banca Intesa, anche nel caso del gruppo guidato per un breve tratto di strada dal duo Rondelli-Profumo, l’uovo di Colombo fu rappresentato dall’adozione di quel modello di gruppo su base federale che vinse definitivamente le resistenze dei maggiorenti delle tre fondazioni, cui fu garantito che non sarebbero state smantellate le un po’ ridondanti direzioni generali, né sarebbero stati dimessi i marchi delle ex casse di risparmio che le avevano partorite a norma di legge, con il relativo corollario di difesa ad oltranza degli interessi locali che la gestione relativamente autonoma delle banche garantiva ai vari Palenzona, Biasi ed agli altri maggiorenti presenti in quei “mostri” come ebbe, in un soprassalto autocritico, a definire le Fondazioni di origine bancaria lo stesso autore della legge, il Dottor Sottile, al secolo Giuliano Amato.
Anche in questo caso, anche se in misura meno rilevante a causa dell’approccio maniacale di Profumo al taglio dei costi ed alla ridefinizione del processo produttivo che prevedeva la centralizzazione di tutto il centralizzabile, la mancata adozione di un modello “normale” nel mondo bancario anglosassone, il costo del forse inevitabile compromesso tra i diversi interessi in gioco è cifrabile in miliardi di euro derivanti dalle ritardate sinergie e dalla defatigante gestione sia delle risorse tecniche che di quelle umane proprie di un modello che prevedeva la permanenza di diverse sedi centrali, di in numeri centri elettronici ed amministrativi e quant’altro, situazione che faceva un po’ venire l’orticaria al giovane manager ligure, che dovette, peraltro, soggiacere al desiderio dei maggiorenti delle Fondazioni che misero di fatto alla porta Rondelli, un banchiere di vecchia scuola della cui preparazione ed integrità mai nessuno ha osato dubitare, uomo di grande rigore ma anche capace, sul versante personale, di gesti veramente commoventi che non è certo questa la sede per ricordare, ma che restano indelebili nella memoria di chi ha avuto modo di venirne a conoscenza.
L’abbandono definitivo delle bizantinerie del modello su base federale richiese anni e venne completata in quella che viene definita la seconda fase del processo di ristrutturazione del sistema bancario italiano, ma è stato a seguito dello spavento rappresentato dalle mire delle banche estere sul florido mercato creditizio italiano che non è stato consentito all’ormai meno giovane banchiere ligure di godere i frutti della sua intensa attività e capacità diplomatica, perché si apriva inesorabilmente la terza fase, Banca Intesa si era già mangiato in un sol boccone il San Paolo-IMI, quando venne da Roma il pressante appello proveniente dall’anziano banchiere di Marino che voleva in un colpo solo liberarsi dei due scalpitanti soci stranieri e di quel brillante amministratore delegato che era riuscito nella mission impossibile di risanare il gruppo Capitalia, ma che aveva avuto, almeno ai suoi occhi, il tremendo torto di aver ordito manovre alle sue spalle e che, solo per l’intervento in extremis di Colaninno Senior, non era riuscito a licenziare in tronco un anno prima, un ripensamento che costrinse uno stuolo di redattori a modificare il “coccodrillo” gia redatto in memoria di Matteo Arpe, che se la cavò con una letterina di scuse nella quale, di fatto, non si scusava proprio di nulla.
A costo di mettere a dura prova la pazienza dei miei pochi ma molto fedeli lettori, mi vedo costretto a fare un passo indietro che serve per comprendere perché il mercato si è talmente rifiutato di accettare la bontà del progetto industriale alla base di una operazione che di industriale ha ben poco, spingendo inequivocabilmentela quotazione del gruppo risultante dalle stelle dei 7,75 euro alla stalle dei poco più 3 euro cui è piombata pochi giorni orsono, per poi recuperare qualche decina di centesimi.
Già, perché è necessario comprendere i mali antichi del gruppo che alla fine ha deciso di denominarsi Capitalia, per comprendere perché forse Alessandro Profumo avrebbe proprio fatto meglio a far svolgere una accurata due diligence prima di imbarcarsi in un’avventura che rischia di mettere a seria prova la sua fama di vincente, né ha convinto i giornalisti da lui convocati alle 7 di mattina in una improvvisata conferenza stampa (fortunatamente con breakfest offerto) in quel di Washington, nel corso della quale si definì da solo pazzo per artificio retorico, in quanto accomunava il suo azzardo a quello che aveva caratterizzato la cordata che aveva strappato ABN AMRO dalle fauci già spalancate della britannica Barclays, dimenticando o fingendo di dimenticare che in quel caso si è trattato di una contro OPA, circostanza che, per definizione, esclude la possibilità di una diligence ex ante, anche perché si dà per buona quella effettuata in sede di OPA, che peraltro era di tipo amichevole.
Come è a tutti noto, le acquisizioni a ripetizione orchestrate dall’allora direttore generale della Cassa di Risparmio di Roma, ma con un brillante passato in Banca d’Italia, l’allora molto più giovane ma già molto potente Cesare Geronzi, videro cadere nel carniere il Banco di Roma ed il Banco di Santo Spirito, cosa che avrebbe reso necessaria una radicale ristrutturazione delle sedi centrali, non fosse altro per la circostanza che erano tutte e tre basate nella città di Roma, mentre, almeno così dicono le cronache di quegli anni, Cesare riuscì nella incredibile impresa di realizzare una sede centrale che aggiungeva quasi duecento addetti a quelli risultanti dalla somma delle tre sedi centrali delle banche coinvolte nella non proprio sinergica operazione.
Né caratterizzata da maggiori ambizioni sinergiche fu la gestione degli affidamenti che i tre istituti avevano più o meno generosamente concesso ad una clientela che spesso era la stessa per le tre entità, affidamenti che in non pochi casi furono semplicemente sommati ed in qualche caso addirittura aumentati, perché dell’anziano banchiere di Marino tutto si può dire meno che si tratti di una persona che manda via qualcuno senza ascoltare quali siano le sue necessità, che, in una città nella quale le pressioni della politica e quelle provenienti da organizzazioni più o meno occulte, trovano spesso uno o più padrini pronti a sostenere lo stato di reale bisogno del richiedente aiuto.
Non pago delle prede romane, il nostro si presentò con il portafoglio in mano all’asta indetta da Ciampi per risolvere i problemi derivanti dalla liquidazione della Sicilcassa e dal suo forzoso assorbimento da parte di un Banco di Sicilia che si trovò ad affrontare problemi non diversi da quelli nei quali si dibatteva Geronzi in quel di Roma e, del tutto incurante dell’ovvia considerazione che da due debolezze raramente viene una forza, riuscì a strappare alla concorrenza quello che era, per amore o per forza, divenuto il principale, e di gran lunga, istituto di credito operante nella regione siciliana.
Reduce dagli infortuni legati al fallimento della Federconsorzi ed ad altre vicende, il numero uno operativo del gruppo Banca di Roma in tandem con l’allora presidente Pellegrino Capaldo proseguirono l’opera di espansione degli affidamenti, almeno sino all’arrivo di un uomo come Brambilla che cercò, non si sa quanto riuscendovi, di tirare disperatamente il freno a mano, spaventato dall’emergere di una montagna di sofferenze sia in Banca di Roma che nella lontana e tormentata provincia siciliana.
Ma il vero e proprio redde rationem venne con la ormai celebre intervista del 1997 nella quale l’anziano banchiere di Marino fu costretto ad ammettere che il gruppo da lui diretto si trovava in guai molto seri, talmente seri da richiedere una drastica pulizia del bilancio ed a presentare una perdita per migliaia di miliardi di lire e chiedendo al Sindacato di farsi carico della situazione disastrosa dei conti, giungendo ad un accordo che vide un’applicazione ante litteram di quelle che sarebbero poi state le regole di funzionamento del fondo per la salvaguardia dell’occupazione nel settore creditizio che vedrà la luce solo un anno dopo, innescando peraltro quella dichiarazione di stato di crisi del settore bancario che porterà al protocollo di palazzo Chigi del giugno 2007, all’accordo quadro del febbraio 2008 ed al contratto del luglio del 1999 che fu la sede dello scambio politico volto alla difesa dei livelli occupazionali descritto nella puntata di ieri.
Prima dell’arrivo di Matteo Arpe, quello delle sofferenze di Banca di Roma prima e di Capitalia poi rappresenta il vero capitolo doloroso della lunga gestione di Geronzi nella gruppo con sede nella Capitale della Repubblica italiana, in quanto, ad onta di accantonamenti e cartolarizzazioni (spesso con l’elastico) per migliaia di miliardi di lire l’anno, l’ammontare delle sofferenze nette resta, anno dopo anno, pressoché ai medesimi livelli, denotando la presenza di un perverso turn over, che indusse più di un commentatore non embedded a ritenere che molti dei crediti concessi erano in realtà sin dall’inizio destinati a diventare sofferenze.
Sulle diverse caratteristiche della gestione di Matteo Arpe, cui vennero affidati pieni poteri solo dopo il disastroso coinvolgimento della banca romana in vicende quali la vendita dei bond argentini, Parmalat e Cirio, con le connesse disavventure giudiziarie dello stesso Geronzi e di altri top manager del gruppo, non mi soffermerò, avendola descritto a sufficienza in precedenti puntate del Diario della crisi finanziaria, anche se mi preme ricordare qui che l’esperienza venne sfortunatamente interrotta a causa dei ricordati conflitti tra presidente ed amministratore delegato quando si era ad un passo, ma decisivo, dalla possibile uscita dal profondo guado nel quale i precedenti errori gestionali avevano condotto la banca capitolina.
Come dicevo di sopra, l’influenza che tutto questo è destinato ad avere sui conti del gruppo risultante dall’acquisizione di Capitalia da parte di Unicredit è stato pesato, valutato e, purtroppo, scartato in numerosi italian desk di importanti banche globali, senza dimenticare l’impatto che sulla valutazione ha avuto la tempesta perfetta da poco meno di un anno virulentemente in corso, circostanza che preoccupa non poco i decision makers delle fondazioni che hanno dato, a suo tempo, il via libera ad Unicredit e che ora non sembrano del tutto soddisfatti delle prospettive di Unicredit Group, forse ritenendo che un manager bravo nelle fasi di espansione non sia necessariamente il più adatto a gestire una situazione complessa e problematica come l’attuale, né che basti riproporre, come fa l’ultimo piano industriale in ordine di tempo, la solita strada a suon di tagli di costi e di personale per tornare ai bei tempi andati.
Nella quarta parte, che apparirà domani, tratterò, su base stavolta esclusivamente speculativa dei possibili passaggi che potrebbero portare, facendo perno sul gruppo Monte dei Paschi di Siena, alla costituzione del terzo polo bancario ed assicurativo italiano, attualizzando i ragionamenti contenuti in precedenti puntate del Diario dedicate a questa possibile prospettiva, mentre spero di avere lo spazio sufficiente per affrontare l’attualissima e delicata questione della governance nelle banche popolari, questione che, almeno a giudicare da quanto è avvenuto nell’ultimo anno, dopo il fallimento del generoso tentativo di riforma propugnato dall’allora presidente della apposita commissione del Senato della Repubblica, Giorgio Benvenuto, e l’attivismo della Vigilanza della Banca d’Italia, sembra, ogni giorno che passa, richiedere una opportuna soluzione.
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.