Non disponendo della classica palla di vetro, non ho assolutamente idea di quale sarà il dato che verrà noto domani sull’andamento degli occupati non agricoli negli Stati Uniti d’America, anticipato in qualche modo ieri da una survey proveniente da un accredito centro di ricerca che indica un saldo positivo di 9 mila unità per gli occupati del settore privato, dato che, se venisse corroborato dal solito apporto positivo ed anticiclico della pubblica amministrazione USA in senso lato, non potrebbe che essere visto positivamente dopo la serie negativa registrata negli ultimi mesi ed i recenti dati sui flussi settimanali e sullo stock di sussidi di disoccupazione, che hanno superato i primi la soglia psicologica delle 400 mila richieste, mentre il secondo non ne vuole sapere di scendere dai 3 milioni ormai toccati e superati da tempo.
Quello che è certo, invece, è il vero e proprio stillicidio di licenziamenti avvenuti ed annunciati in un’orgia di downsizing che dal settore finanziario si sposta sempre più decisamente verso il settore dei servizi non finanziari e, da qualche tempo, anche il settore dell’industria, come è testimoniato dall’annuncio fatti ieri dalla General Motors che ha reso noto un piano di tagli del personale in Canada e negli Stati Uniti che riguarderà ben il 15 per cento della forza lavoro complessiva del colosso automobilistico.
Non è necessario essere keynesiani per capire come tutto questo difficilmente farà bene alla domanda aggregata, anche alla luce del fatto che anche la componente degli investimenti, legata come è alle aspettative alla effettiva disponibilità di credito abbondante e a buon mercato, non promette nulla di buono, mentre la spesa pubblica, già a livelli da record e con deficit e debito per il 2008, ma soprattutto per il 2009, rappresenteranno, per chiunque vincerà la sfida delle presidenziali nel prossimo mese di novembre, il problema dei problemi da affrontare con estrema decisione ed urgenza se si vuole che il dollaro non finisca, dritto, dritto, verso livelli prossimi a 2 dollari per un euro e meno di 90 yen per il biglietto verde.
Al di là delle alquanto scomposte mosse dell’amministrazione statunitense e di un Congresso ormai totalmente immerso nella campagna elettorale in corso che, grazie anche all’efficace sistema di spoil system vigente negli States, riguarderà un numero infinito di posizioni che arriva a toccare anche gli sceriffi di contea, e le misure di controllo degli scambi adottata dalla Securities and Exchange Commission a metà di luglio e recentemente prorogato fino al 12 agosto prossimo venturo per difendere le 19 principali entità finanziarie operanti nel mercato statunitense, per non parlare delle iniezioni di liquidità a raffica e dell’immobilismo sui tassi di interesse garantiti da Bernspan e complici, l’impatto che tutto questo avrà sulla crescita statunitense e sui livelli prevedibili di export di Giappone, Cina e India non rappresenta più motivo di speculazione,mentre l’unica incognita resta quella della profondità che gli effetti della tempesta perfetta virulentemente in corso avranno effettivamente nei trimestri e negli anni a venire.
Dispiace che a fronte di un’evidenza così palmare dei fatti, anche ieri il solito analista a libro paga della potente e preveggente Goldman Sachs si sia voluto esercitare nell’ennesima previsione su un greggio a 149 dollari al barile entro il prossimo mese di dicembre che, seppur molto più moderata della precedente stima della medesima casa di investimenti che vedeva il barile a 200 dollari in un futuro molto prossimo o quelle di fonti interessate quali alcuni paesi produttori che si spingevano anche molto oltre, sembra proprio non volere cogliere le tendenze di una domanda effettiva del greggio come delle altre materie prime energetiche e non che sarebbero evidenti anche ad uno studente del primo anno di una qualsiasi facoltà di economia con sede in un qualsiasi paese del mondo, il che, in presenza del vivace dibattito che vede ministri economici, banche centrali, esperti di ogni genere accapigliarsi sul ruolo che la speculazione finanziaria sta esercitando sui prezzi delle materie prime e delle derrate alimentari, pare proprio una mossa molto poco saggia per un’istituzione finanziaria da cui provengono ministri, sottosegretari, governatori di banche centrali, Chairman e Chief Executive Officer di tante banche di investimento e di banche commerciali più o meno globali.
Ignoro del tutto quale sia l’attendibilità della stima fornita di recente da Mario Draghi, che vede almeno un quarto del prezzo del greggio ascrivibile ai movimenti finanziari in corso, o quelle altrettanto autorevolmente formulate da altri autorevoli esponenti di organismi internazionali che vedono un peso anche maggiore dell’operatività via derivati sul prezzo di questa come delle altre materie prime, ma invito tutti a leggere con attenzione quanto affermato dal Re dell’Arabia Saudita in una lunghissima intervista apparsa di recente sul quotidiano La Repubblica o le molto eloquenti dichiarazioni dello sceicco Yamani, per lunghissimo tempo presidente dell’OPEC ed ora a capo di un importante centro di previsioni sul greggio, uno che se ne intende, insomma, e che vede consistente un prezzo al barile intorno agli ottanta dollari, anche se non si esprime su di un aspetto importante come il valore trade weighted del biglietto verde.
Mentre gli operatori continuano ad ignorare il testo finale del rapporto che il Financial Stability Forum si era impegnato a formulare entro il mese di luglio, ma, più in particolare, il contenuto esatto di quelle 65 raccomandazioni che vennero anticipate nella cena offerta dal duo Bernspan-Paulson al gotha dell’industria finanziaria globale in quel di Washington a metà di aprile di questo orribile 2008, raccomdazioni che, secondo attendibili indiscrezioni provenienti da quel consesso ben poco conviviale svoltosi rigorosamente a porte molto chiuse, avrebbero mandato il boccone di traverso a più di un banchiere partecipante, la strategia implicita evidenziata dalle mosse di Bernspan, Paulson ed Effe O Ixs appare improntata più ad un premio al moral hazard continuato ed aggravato avvenuto sul mercato finanziario globale che quel sano processo di distruzione creativa di cui il mondo anglosassone si è sempre vantato, evidenziandone i vantaggi sistemici rispetto all’approccio statalisti e welferista proprio della Vecchia Europa.
Di fronte alla minaccia sempre più concreta ai livelli occupazionali nel settore finanziario ed in quello industriale, non stupisce la disinvoltura nel cambiamento repentino dei riferimenti teorici da parte dell’establishment politico e finanziario mondiale, mentre stupisce molto di più che vengano allegramente adottate politiche e misure che, nella migliore delle ipotesi, renderanno la quinta ondata della tempesta perfetta un qualcosa di veramente micidiale, anche perché rafforzata dalle spinte che i provvedimenti e le misure stanno in ogni modo cercando di comprimere.
Faccio un unico esempio, partendo proprio dalla decisione di Effe O Ixs di impedire il gioco al ribasso nei confronti di Fannie Mae, Freddie Mac ed altre diciassette entità finanziarie molto rilevanti, in quanto se qualcuno pensa che un ribassista come David Einhorn non ne approfitti per guadagnare sullo scontato e molto rilevante (in alcuni casi il raddoppio o la triplicazione dai minimi) aumento delle quotazioni delle azioni delle entità finanziarie sotto attacco, non ha un’idea neanche vaga di come si conduce un gioco rischioso ma quasi sempre redditizio come questo!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.