domenica 13 luglio 2008

E se le Investment Banks e le CIB facessero la fine dei dinosauri?


In una puntata precedente del Diario della crisi finanziaria mi sono posto una domanda rispetto al futuro delle Investment Banks e delle divisioni Corporate & Investment Banking delle banche più o meno globali e, un po’ per celia e un po’ per non morire, ho evidenziato il rischio che le stesse possano fare la brutta fine che occorse, ere geologiche orsono, ai dinosauri, al tempo padroni assoluti nelle loro varie specie del nostro pianeta e, pare, improvvisamente spazzati via dalla faccia della Terra a causa delle conseguenze disastrose di un evento quale l’impatto di un gigantesco meteorite, oppure, molto più semplicemente, perché avevano oltrepassato drammaticamente i limiti del loro sviluppo rispetto alle anche allora limitate risorse del nostro piante, quantomeno a quelle disponibili in base alla loro capacità di utilizzazione delle risorse stesse.

Sono certo che un simile paragone, ove sia stato letto a Londra o a New York a dispetto dei limiti dell’uso della lingua italiana, abbia fatto storcere il naso alle donne ed agli uomini così duramente impegnati in un’attività della quale un giorno non lontano potremmo pensare che non sia stata caratterizzata da quelle caratteristiche di indispensabilità e utilità sociale che per decenni le è stata, forse un po’ improvvidamente, attribuita dai banchieri, dagli economisti e da quel vero e proprio stuolo di giornalisti ed opinionisti più o meno embedded alle logiche del capitale finanziario che spesso hanno lanciato gridolini di gioia ed espresso sentimenti di estasi per le performance di questi nuovi capitani di ventura non proprio impegnati nella ricerca disinteressata del Santo Graal.

Lungi da me l’intento di gettare via il classico bambino con l’altrettanto abituale acqua sporca, ma credo proprio che, giunti in prossimità della quarta e forse fatale ondata della tempesta perfetta virulentemente in corso da poco meno di un anno, sia giunto il momento di interrogarci tutti sui motivi per i quali sia stato possibile che donne ed uomini di grande preparazione e di elevata professionalità siano giunti a perdere del tutto la bussola che li avrebbe dovuti orientare nell’operare nel mare magnum della finanziarizzazione spinta che è intervenuta negli ultimi tre decenni con la stessa facilità con la quale un affilato coltello penetra in un panetto di burro tenuto a temperatura ambiente.

Non credo proprio che ciò sia avvenuto per un’assenza di controlli interni od esterni allo scintillante mondo dell’investment banking, non fosse altro che poche attività economiche umane sono caratterizzate, ovviamente ove siano rispettati i protocolli e le ferree regole interne, come quella che trasforma i valori della dura e poco pura attività produttiva reale in titoli replicanti, a volte un numero ennesimo di volte, i più vari e disparati fenomeni sottostanti, da sistemi di controlli interni governati da figure, come il Chief Operating Officer, che hanno il compito di garantire, di facilitare, di ricondurre a sistema le astruse ed a volte bizzarre invenzioni degli apprendisti stregoni dele fabbriche prodotto delle Investment Banks e delle CIB delle banche più o meno globali, mentre lo stesso dovrebbe accadere nelle altre entità, come le compagnie di assicurazione ed i fondi della più varia specie e natura che, da un lato o dall’altro della barricata, hanno deciso di giocare da protagonisti nel magico mondo della finanza in senso lato.

Non è, quindi, che il leverage ratio, il grado di rischiosità dei titoli della finanza strutturata confezionati ed offerti, i rischi derivanti da una eventuale interruzione della crescita perpetua dell’economia in generale o di importanti segmenti della stessa, come quello dell’immobiliare, più in particolare fosse ignoti ai vertici delle principali entità a vario titolo operanti nel mercato finanziario globale, ma, come amava dire l’allora numero uno assoluto del colosso Citigroup, l’indimenticabile Chuck Price III, finché la musica suona bisogna continuare a ballare.

Sperando che a nessuno vengano in mente immediate analogie con il famoso episodio della orchestra del translantico Titanic che continuò a suonare mentre la nave affondava, devo tuttavia ammettere che mai paragone potrebbe essere più azzeccato, considerando le dichiarazioni improntate al più assoluto ottimismo ed alla più totale fiducia nella solidità della propria azienda di tanti numeri uno di entità miseramente fallite a pochi giorni, se non a poche ore, da quelle stesse e molto strombazzate dichiarazioni.

Il problema dei problemi non è dunque rappresentato da una carenza dei controlli interni o dalla scarsa conoscenza che i Board of Directors potrebbero avere dei fenomeni aziendali più complessi, quanto dalla insostenibile leggerezza che pervadeva i top managers a fronte dei sempre più brillanti risultati che, trimestre dopo trimestre, venivano macinati dalle Investment Banks o dalle CIB, così come dalla sicurezza che queste donne ed uomini avevano che il cerino acceso sarebbe rimasto, come quasi sempre si è verificato in passato, in mani altrui.

Non che questa volta le cose stiano andando in modo così diverso, se è vero, come purtroppo rischia di essere drammaticamente vero, che il peso maggiore delle perdite, per quasi mille miliardi di dollari sui 1.300-1.400 per ora stimati, dovrebbe ricadere su quelli che un tempo venivano chiamati organismi di investimento collettivi, quali i fondi di investimento di ogni ordine e specie, fondi pensione, ahimé, inclusi.

Con questo, non voglio assolutamente dire che qualche problemino in relazione alla esatta conoscenza dei rischi non abbia caratterizzato la maggior parte dei numeri uno delle diverse entità operanti nel mercato finanziario globale, quanto che questa ignoranza era più legata ai valori dei titoli delle finanza strutturata direttamente od indirettamente posseduti in relazione ad eventi che non erano stati assolutamente preventivati e che si sono riverberati con conseguenze ancor più catastrofica proprio per l’estrema complessità dei titoli stessi, della cui esatta composizione era spesso a conoscenza solo il loro inventore, sempre ammesso che non avesse gettato poi la relativa formula.

Ben diverso è il discorso che riguarda i diversi livelli di controlli esterni, da quella vera e propria babele di regolatori che dovrebbero vigilare sul mercato finanziario statunitense alle agenzie di rating operanti un regime di vero e proprio conflitto di interessi, dagli imbelli organismi sopranazionali partoriti a Bretton Woods alle banche centrali, passando per il vero e proprio vuoto normativo e regolamentare determinato da governi e parlamenti che sembravano avere l’unico scopo di non disturbare in alcun modo chi stava manovrando al vertice delle banche e delle compagnie di assicurazione, anche grazie al generoso sostegno che le stesse assicuravano, in modo assolutamente bipartisan, alle sempre più costose campagne per le elezioni presidenziali e per quelle relative alla conquista di un seggio al Senato o alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti d’America, con lo spiacevole corollario che ci induce a chiederci non perché tutto questo sia accaduto, ma perché non sia accaduto prima.

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nella sezione video del sito dell’associazione Free Lance International Press all’indirizzo http://www.flipnews.org/ , mentre rendo noto che sono stati pubblicati nei giorni scorsi gli atti dello stesso convegno.