mercoledì 23 gennaio 2008

Bernanke rischia di finire le munizioni


La decisione della Federal Reserve di tagliare di 75 punti base il tasso sui Fed Funds poco prima dell’apertura di ieri dei mercati statunitensi e in anticipo sulla riunione del Federal Open Market Commitee prevista per il prossimo 30 gennaio è intervenuta dopo quello che molti analisti hanno definito un vero e proprio meltdown delle borse di tutto il pianeta, una alluvione di ordini di vendita che ha risparmiato solo gli indici statunitensi, in quanto la borsa lunedì era chiusa per festività.

Gli operatori devono avere pensato che un taglio di questa entità e deciso in teleconferenza non potesse che avere motivazioni di fondo molto gravi e che vanno al di là delle turbolenze, per quanto molto forti, dei mercati azionari, anche perché è a tutti noto che sta tornando una relativa calma sul mercato interbancario, e, come era già accaduto venerdì con il piano di fiscal restore di Bush, anche ieri la reazione iniziale alla mossa imprevista di Ben Bernanke e soci è stata estremamente negativa, con il Dow Jones Industrial in calo alle prime battute di oltre 400 punti e il Nasdaq in calo del 5 per cento, il che ha fatto immediatamente scattare il disinnesco dei sistemi automatici di contrattazione.

Si è così creata una situazione francamente paradossale, con i listini europei che dalle perdite dalla mattinata si sono avventurate, con maggiore o minore decisione, in territorio positivo, con rialzi che hanno visto parecchi titoli del settore finanziario recuperare tutto o gran parte delle perdite registrate nel bagno di sangue della seduta precedente, mentre, anche dopo un sensibile recupero, gli indici statunitensi sembravano ancora dominati da un forte pessimismo e si mantenevano di almeno un punto percentuale al di sotto dei non esaltanti livelli sui quali si era chiusa l’orribile settimana scorsa.

L’azzardo di Bernanke, i tre piani annunciati in pochi mesi dal ministro del Tesoro USA e, infine, dallo stesso Bush, insieme ai rumors sempre più inquietanti che circolano su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico non sono certo stati fugati dai comunicati diffusi da Bank of America e da Wachovia Bank che hanno dovuto ammettere che gli utili del quarto trimestre del 2007 si erano letteralmente polverizzati rispetto a quelli registrati nello stesso periodo dell’anno precedente, con flessioni, rispettivamente del 95 e del 98 per cento, risultati in larga parte dovuti a svalutazioni ed accantonamenti miliardari per entrambe le banche commerciali ed un sensibile calo dei ricavi che ha afflitto sia l’una che l’altra banca.

Né può essere stato di sollievo, per i sempre più inquieti operatori del mercato finanziario statunitense, scoprire che la degradata Ambac, la compagnia monoline che, insieme al colosso MBIA, assicura la gran parte delle emissioni obbligazionarie, ha registrato, sempre nel quarto trimestre, perdite per 3,26 miliardi di dollari, ovverosia un rosso pari a 31,85 dollari per azione, mentre la flessione dei premi incassati è stata pari al 78 per cento, segnale inequivocabile della completa paralisi che sta colpendo l’un tempo effervescente comparto della finanza strutturata, dato ulteriormente aggravato dal vero e proprio balzo in avanti del costo necessario per assicurare un’emissione obbligazionaria.

Come è ormai largamente noto ai pochi lettori delle puntate del diario della crisi finanziaria, non attribuisco grande rilevanza alle oscillazioni di borsa, ma devo confessare di essere rimasto stupito ieri dal balzo in avanti delle quotazioni di Ambac e di MBIA, così come dalle performance delle due banche che hanno annunciato i risultati del quarto trimestre e dell’intero esercizio 2007, giungendo a chiedermi: ma che disastro maggiore si aspettavano gli operatori per essere tutto sommato soddisfatti dalle cifre che emergono da questi bollettini di guerra?

Tornando sulla decisione a sorpresa della Fed, credo sia il caso di ricordare che, quando tutto è iniziato, il tasso sui Fed Funds era da due anni stabilmente posizionato al livello del 5,75 per cento, mentre il tasso di riferimento della Banca Centrale Europea si collocava sul 4 per cento, mentre, oggi, il tasso sui Fed Funds, un tasso che orienta la maggior parte dei finanziamenti indicizzati è giunto al 3,50 per cento e quello gestito dai templari della BCE continua ad essere inchiodato sul 4 per cento, con un orientamento, non si sa se per celia o per non morire, minacciosamente orientato, per la disperazione dei governi dei paesi dell’area euro, ad uno o più rialzi.

Credo proprio che a Francoforte si siano dimenticati della metafora della coperta troppo corta per coprire tutto e il contrario di tutto, anche perché gli sforzi immani che la BCE sta compiendo per evitare che l’euro si riporti in vista del livello di 1,50 dollari diventano difficilmente efficaci quando il differenziale di tasso tra le due valute da negativo per 175 punti base diviene in soli cinque mesi positivo per 50 punti base, con tendenza ad accrescersi e non a ridursi nell’orizzonte temporale prevedibile e che non basteranno gli acquisti massicci di dollari da utilizzare, via Federal Reserve, in favore dei famelici appetiti delle sempre più malandate banche statunitensi.

Non è certo un caso se l’euro, tornato nei giorni del meltdown borsistico al di sotto di 1,44 dollari, si è riportato ieri nuovamente e prepotentemente al di sopra di 1,46 dollari e che ben altri livelli potremmo vedere nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, quando gli operatori avranno avuto il tempo di metabolizzare le nuove prospettive in termini di differenziale di tasso sulle due valute, mentre lo yen, nel frattempo ha già testato con decisione verso il basso la soglia psicologica dei 105 yen per dollaro, mentre era a 124 yen per dollaro soltanto a luglio del 2007.

Continua, intanto, l’accanimento terapeutico operato con ostinazione degna di miglior causa da Bank of England e governo britannico nei confronti della clinicamente morta Northern Rock, uno spettacolo che ha visto esibirsi improbabili acquirenti del tutto sprovvisti dei requisiti per fare i banchieri, mentre continuano a brillare per la loro assenza le grandi banche britanniche, quelle dell’area dell’euro, quelle statunitensi e persino l’extracomunitaria e globale UBS.

Mentre si è persa ogni traccia dello scandalo finanziario intercorso tra la Repubblica di San Marino e la sua controllata romagnola, né si sa nulla dei dieci amministratori e dirigenti di banca arrestati né dei 37 imprenditori indagati, si viene a sapere che è stato trovato l’accordo per il banco di Sicilia, un’intesa che vedrà l’uscita del presidente Mancuso dalla banca siciliana ma non dal board of directors di Unicredit Group e il dirottamento di uno dei due direttori generali verso analoga carica in un’entità del gruppo, ma con la promessa che il nuovo direttore generale, stavolta in solitaria, sarà scelto tra uno dei tanti dirigenti dello stesso BdS.

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