Dovrebbero essere proprio eroici i consumatori americani e sprezzanti dei gravi rischi impliciti nel cedere alle sirene del commercio utilizzando lo zip zip di una carta di credito che, se tardi a pagare di un giorno la rata, ti porta il tasso di interesse dal 13 al 30 per cento e più, dovrebbero essere quasi dei kamikaze se continuassero ad ignorare la crescita vertiginosa della rata del mutuo a tasso indicizzato o il rischio sempre più concreto di vedersi portare via l’automobile che era stata quasi tutta pagata.
Ma neanche ai consumatori più consumatori del mondo, quali le donne e gli uomini che popolano gli Stati Uniti certamente sono, si può chiedere troppo ed allora, stretti sempre più spesso tra scelte come quella tra pagare il pieno per andare al lavoro o andare a fare la spesa al supermercato, iniziano a prendersi una pausa e portano le vendite al dettaglio nel solitamente magico mese di dicembre, spingendo il dato ad un orribile -0,4 per cento, ingrati di fronte agli sforzi in termini di saldi normali e super offerti da Wal Mart e dalle altre grandi catene ben prima della stagione del Christmas Spending.
Ma, ieri, tutti aspettavano al varco il nuovo CEO di Citigroup, Vikram Pandit, alle prese con l’inevitabile diffusione dei dati relativi ad un trimestre, il quarto del 2007, che verrà certamente ricordato nella quasi bicentenaria storia della banca newyorkese che ha poi dato vita al gruppo che ha una presenza nel mondo seconda solo all’ONU, e le cose sono andate molto peggio delle ultime catastrofiche anticipazioni dei bene informati, con accantonamenti e svalutazioni per oltre 22 miliardi di dollari, una perdita da 10 miliardi di dollari, a fronte della quale, vi autorizzo a non crederci, vi è comunque un dividendo, per quanto ridotto del 41 per cento, di 32 centesimi.
E già, in quanto da lungo tempo Citigroup tratta gli azionisti come fossero degli obbligazionisti a cui si è moralmente impegnata a corrispondere un dividendo (non sarebbe meglio chiamarla cedola?) che deve corrispondere ad una percentuale del 7,5 per cento circa del valore dell’azione, e questo accade alla prima banca della più grande piazza finanziaria del pianeta.
Come previsto, Pandit ha accompagnato alla diffusione dei dati da lui stesso definiti inaccettabili l’annuncio del reperimento di 12,5 miliardi di dollari di nuovi capitali, che si aggiungono ai 7,5 miliardi del prestito obbligazionario convertibile sottoscritto in novembre dal fondo governativo di Abu Dhabi, una iniezione di denaro fresco che vede il fondo governativo di Singapore fare la parte del leone con 6,88 miliardi di dollari e l’opzione per un 4 per cento del totale delle azioni, e, a seguire, il Capital Research Global Investor, il Capital World Investor, il fondo governativo del Kuwait, il principe saudita Alwaleed bin Talal e, dulcis in fundo, Pandit ha convinto anche il precedente presidente e CEO Sanford Weill, dai più indicato come il vero responsabile del disastro del gruppo che ha guidato per lunghissimo tempo, ad aprire i cordoni della borsa attingendo all’ingente capitale da lui messo da parte negli anni ruggenti.
In attesa di rendere noti domani i dati del quarto trimestre, la disastrata Merrill Lynch ha reso noto di aver reperito finanziamenti per 6,6 miliardi di dollari e, anche stavolta, si tratta di un prestito obbligazionario convertibile in azioni entro un termine di due anni, rendendo al contempo noti i nomi dei prestatori, cui verrà riconosciuto il non disprezzabile tasso di interesse del 9 per cento, che si identificano nel fondo governativo della Corea del Sud, nell’omologo organismo del Kuwait e nella banca giapponese Mizuho Corporate.
Come era largamente prevedibile, l’insieme di queste notizie ha spinto decisamente al ribasso i listini europei e quelli statunitensi, quelli asiatici avevano già dato in precedenza e ripetono la pessima performance questa mattina, ed è arduo trovare un listino che perda meno del 2 per cento, mentre in molti stanno seguendo il consiglio di alcuni tra i più rispettati ed autorevoli guru di Wall Street che invitano a liberarsi delle azioni e a dirottare i capitali verso i Treasury Bonds, spingendo così il rendimento del decennale al 3,70 per cento circa, un livello decisamente basso se lo si confronta con il 4,25 per cento dei Fed Funds, dai più visto al 3,75, se non al 3,50, per cento già nella seduta del FOMC della Federal Reserve che si terrà il prossimo 30 gennaio.
Risparmio ai miei pochi lettori le singole perdite delle azioni delle principali entità operanti nel mercato finanziario statunitense e altrove, limitandomi ad indicare che la flessione media oscilla intorno al 4 per cento, con punte del 7 per cento per Citigroup e per le entità maggiormente coinvolte nel mortgage, mentre si aggrava giorno dopo giorno la situazione di MBIA l’assicurazione monoline che non si tirava indietro di fronte a nessuna emissione e che sente sempre più sul proprio collo il fiato di Warren Buffett che è entrato di recente in questo settore di attività con l’obiettivo, neanche troppo celato, di raccogliere le corpose spoglie dei due principali operatori a prezzi di assoluto saldo.
Non è peraltro un caso se, sulle pagine specializzate finanziarie, apparivano ieri titoli del tipo, Berkshire (il fortunatissimo fondo gestito, appunto, da Buffett) è più interessante di quell’oro che, sempre ieri, ha toccato un nuovo record a 916 dollari e spiccioli, mentre affondavano letteralmente le quotazioni del petrolio per l’ovvio motivo che il rallentamento e la futura recessione americana ed il rallentamento europeo mandano a quel paese i sogni dorati di quella miriade di speculatori di ogni ordine e risma che non hanno ascoltato quanti, già in dicembre, vedevano i rischi concreti, o sarebbe meglio dire le opportunità, di una flessione a breve termine dell’oro nero verso il livello di 75 dollari al barile, tanto per parlare di quella stupidità fondamentale che Keynes riteneva caratteristica distintiva, insieme alla paura, dell’uomo economico.
A propositi di segnali di allarme, non sottovaluterei, se fossi un carry trader attivo sui cross che vedono presente la valuta giapponese, l’ingresso deciso del dollaro nell’area dei 106 yen, un livello assolutamente impensabile prima dello scoppio della tempesta perfetta e che rischia di mandare gambe all’aria i tanti che sono ancora convinti che il Giappone continui ad essere l’esempio di quella trappola della liquidità, anche essa di keynesiana memoria, anche se devo ammettere che la BoJ rappresenta altrettanto modello di stupidità istituzionale.
Che dire, infine, degli sventurati azionisti della Northern Rock che, in numero di circa 600, hanno assediato l’attuale presidente della un tempo ottava banca britannica, scossi dai timori della ormai sempre più prossima nazionalizzazione della banca e che ha come unica alternativa l’onta del fallimento?
Ma neanche ai consumatori più consumatori del mondo, quali le donne e gli uomini che popolano gli Stati Uniti certamente sono, si può chiedere troppo ed allora, stretti sempre più spesso tra scelte come quella tra pagare il pieno per andare al lavoro o andare a fare la spesa al supermercato, iniziano a prendersi una pausa e portano le vendite al dettaglio nel solitamente magico mese di dicembre, spingendo il dato ad un orribile -0,4 per cento, ingrati di fronte agli sforzi in termini di saldi normali e super offerti da Wal Mart e dalle altre grandi catene ben prima della stagione del Christmas Spending.
Ma, ieri, tutti aspettavano al varco il nuovo CEO di Citigroup, Vikram Pandit, alle prese con l’inevitabile diffusione dei dati relativi ad un trimestre, il quarto del 2007, che verrà certamente ricordato nella quasi bicentenaria storia della banca newyorkese che ha poi dato vita al gruppo che ha una presenza nel mondo seconda solo all’ONU, e le cose sono andate molto peggio delle ultime catastrofiche anticipazioni dei bene informati, con accantonamenti e svalutazioni per oltre 22 miliardi di dollari, una perdita da 10 miliardi di dollari, a fronte della quale, vi autorizzo a non crederci, vi è comunque un dividendo, per quanto ridotto del 41 per cento, di 32 centesimi.
E già, in quanto da lungo tempo Citigroup tratta gli azionisti come fossero degli obbligazionisti a cui si è moralmente impegnata a corrispondere un dividendo (non sarebbe meglio chiamarla cedola?) che deve corrispondere ad una percentuale del 7,5 per cento circa del valore dell’azione, e questo accade alla prima banca della più grande piazza finanziaria del pianeta.
Come previsto, Pandit ha accompagnato alla diffusione dei dati da lui stesso definiti inaccettabili l’annuncio del reperimento di 12,5 miliardi di dollari di nuovi capitali, che si aggiungono ai 7,5 miliardi del prestito obbligazionario convertibile sottoscritto in novembre dal fondo governativo di Abu Dhabi, una iniezione di denaro fresco che vede il fondo governativo di Singapore fare la parte del leone con 6,88 miliardi di dollari e l’opzione per un 4 per cento del totale delle azioni, e, a seguire, il Capital Research Global Investor, il Capital World Investor, il fondo governativo del Kuwait, il principe saudita Alwaleed bin Talal e, dulcis in fundo, Pandit ha convinto anche il precedente presidente e CEO Sanford Weill, dai più indicato come il vero responsabile del disastro del gruppo che ha guidato per lunghissimo tempo, ad aprire i cordoni della borsa attingendo all’ingente capitale da lui messo da parte negli anni ruggenti.
In attesa di rendere noti domani i dati del quarto trimestre, la disastrata Merrill Lynch ha reso noto di aver reperito finanziamenti per 6,6 miliardi di dollari e, anche stavolta, si tratta di un prestito obbligazionario convertibile in azioni entro un termine di due anni, rendendo al contempo noti i nomi dei prestatori, cui verrà riconosciuto il non disprezzabile tasso di interesse del 9 per cento, che si identificano nel fondo governativo della Corea del Sud, nell’omologo organismo del Kuwait e nella banca giapponese Mizuho Corporate.
Come era largamente prevedibile, l’insieme di queste notizie ha spinto decisamente al ribasso i listini europei e quelli statunitensi, quelli asiatici avevano già dato in precedenza e ripetono la pessima performance questa mattina, ed è arduo trovare un listino che perda meno del 2 per cento, mentre in molti stanno seguendo il consiglio di alcuni tra i più rispettati ed autorevoli guru di Wall Street che invitano a liberarsi delle azioni e a dirottare i capitali verso i Treasury Bonds, spingendo così il rendimento del decennale al 3,70 per cento circa, un livello decisamente basso se lo si confronta con il 4,25 per cento dei Fed Funds, dai più visto al 3,75, se non al 3,50, per cento già nella seduta del FOMC della Federal Reserve che si terrà il prossimo 30 gennaio.
Risparmio ai miei pochi lettori le singole perdite delle azioni delle principali entità operanti nel mercato finanziario statunitense e altrove, limitandomi ad indicare che la flessione media oscilla intorno al 4 per cento, con punte del 7 per cento per Citigroup e per le entità maggiormente coinvolte nel mortgage, mentre si aggrava giorno dopo giorno la situazione di MBIA l’assicurazione monoline che non si tirava indietro di fronte a nessuna emissione e che sente sempre più sul proprio collo il fiato di Warren Buffett che è entrato di recente in questo settore di attività con l’obiettivo, neanche troppo celato, di raccogliere le corpose spoglie dei due principali operatori a prezzi di assoluto saldo.
Non è peraltro un caso se, sulle pagine specializzate finanziarie, apparivano ieri titoli del tipo, Berkshire (il fortunatissimo fondo gestito, appunto, da Buffett) è più interessante di quell’oro che, sempre ieri, ha toccato un nuovo record a 916 dollari e spiccioli, mentre affondavano letteralmente le quotazioni del petrolio per l’ovvio motivo che il rallentamento e la futura recessione americana ed il rallentamento europeo mandano a quel paese i sogni dorati di quella miriade di speculatori di ogni ordine e risma che non hanno ascoltato quanti, già in dicembre, vedevano i rischi concreti, o sarebbe meglio dire le opportunità, di una flessione a breve termine dell’oro nero verso il livello di 75 dollari al barile, tanto per parlare di quella stupidità fondamentale che Keynes riteneva caratteristica distintiva, insieme alla paura, dell’uomo economico.
A propositi di segnali di allarme, non sottovaluterei, se fossi un carry trader attivo sui cross che vedono presente la valuta giapponese, l’ingresso deciso del dollaro nell’area dei 106 yen, un livello assolutamente impensabile prima dello scoppio della tempesta perfetta e che rischia di mandare gambe all’aria i tanti che sono ancora convinti che il Giappone continui ad essere l’esempio di quella trappola della liquidità, anche essa di keynesiana memoria, anche se devo ammettere che la BoJ rappresenta altrettanto modello di stupidità istituzionale.
Che dire, infine, degli sventurati azionisti della Northern Rock che, in numero di circa 600, hanno assediato l’attuale presidente della un tempo ottava banca britannica, scossi dai timori della ormai sempre più prossima nazionalizzazione della banca e che ha come unica alternativa l’onta del fallimento?
1 commento:
SEI UN GRANDE .MAGARI CE NE FOSSERO 1000 COME TE CHE DANNO NOTIZIE VERE.
CONTINUA COSI' COMPLIMENTI
ALESSANDRO
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