mercoledì 2 gennaio 2008

Le due vere cause della perdita del potere di acquisto dei redditi da lavoro dipendente e da pensione in Italia



Divampa da giorni nei chiacchiericci della politica e sulle pagine dei giornali la cosiddetta questione salariale, che è poi l’altra faccia del più grande processo di redistribuzione del reddito in favore dei profitti e dei redditi da lavoro autonomo a danno di quelli dei lavoratori dipendenti e dei pensionati.

Come tutte le questioni che hanno attinenza con il potere economico e con quello politico, ogni volta che viene sventolata una questione è difficile, come insegna il libro più letto al mondo, distinguere il grano dal loglio, e, quindi, come per le questioni di cui questo blog si occupa quotidianamente, sono necessari non uno, ma almeno due passi indietro per orientarsi nel polverone sollevato dalle troppe parole e dichiarazioni.

Come è a tutti noto, governante Giuliano Amato ed in piena Tangentopoli, il 31 luglio del 1992 fu raggiunta la famosa intesa triangolare tra Governo, imprenditori e sindacati per abolire, dopo un lungo processo di desensibilizzazione della stessa, la cosiddetta scala mobile, sostituita, anche se l’intesa in tal senso verrà perfezionata nel secondo e più famoso accordo del 23 luglio 1993, ma stavolta al governo c’era Carlo Azeglio Ciampi, dall’introduzione del biennio economico nell’ambito del contratto normativo a valenza quadriennale.

Si trattò di una decisione talmente sofferta che l’appena scomparso Bruno Trentin, allora segretario generale della CGIL, firmò e, poco dopo essere uscito da Palazzo Chigi, rassegnò le sue dimissioni da capo del più grande sindacato d’Italia, ritenendo che lo scambio tra la protezione automatica, per quanto sempre meno efficace, rappresentata dalla scala mobile sarebbe stata poco più che compensata dal rinnovo biennale della parte economica dei contratti, con il prevedibile risultato di una perdita in prospettiva dei redditi da lavoro dipendente che sino a quel momento avevano sommato la contingenza con aumenti più a carattere reale derivanti dalla contrattazione di primo e secondo livello.

L’analisi della distribuzione del reddito negli anni che vanno dal 1993 al 2001 conferma clamorosamente che la sensazione e la sofferenza di Trentin, dalle quali non erano certo immuni gli altri leader confederali, era più che fondata e che, dopo due decenni di acquisizioni, anche significative per i lavoratori dipendenti, iniziava il processo di progressiva perdita del potere di acquisto di salari e stipendi, un processo che, seppur tra alti e bassi, non si sarebbe più interrotto.

Ma il secondo passo indietro che propongo è ancor più doloroso del primo e, seppur più recente, ha prodotto effetti davvero micidiali sulla questione salariale ed è rappresentato dall’ingresso dell’Italia, insieme agli altri paesi partecipanti, al processo di introduzione della moneta unica europea, l’euro, un processo che ha visto nel 1998 la fissazione dei cambi tra le valute partecipanti e, alla fine dell’anno, la relativa parità delle singole valute con la moneta unica, mentre per la vera e propria circolazione dell’euro, cioè per il change over, si sarebbe dovuto attendere l’inizio del 2002.

Premettendo che si è trattato di una scelta di grande respiro ed in qualche modo obbligata, non si può, tuttavia, prescindere dal fatto che la stessa veniva presa appena sei anni dopo l’uscita precipitosa della lira e della sterlina dallo Sistema Monetario Europeo a causa di una pesante svalutazione che le due valute avevano subito, in parte per motivi oggettivi, ma anche per una difesa ad oltranza di livelli irrealistici, una difesa che, come ricordavo qualche giorno fa, era stata talmente esasperata e letteralmente sanguinosa per le riserve valutarie da determinare quasi esattamente quei livelli di svalutazione che Soros e compagni avevano indicato nelle loro scommesse.

Risalire la china dopo una simile batosta fu davvero faticoso, ma in qualche modo la lira si stava riprendendo quando, a causa del ciclo politico che vide l’avvento del primo governo Berlusconi, la sua repentina caduta sette mesi dopo il giuramento e i 18 mesi circa del governo Dini, un governo talmente debole che chiamò nuovamente a nozze la speculazione internazionale che si divertì a giocare a tiro a segno con la nostra valuta che arrivò a toccare l’astronomico livello di 1.250 lire per un marco tedesco.

Con la vittoria del centro sinistra ed il Governo Prodi si assistette ad un recupero straordinario della nostra valuta che, dall’onta dei 1.250 contro marco si riportò in vista della soglia di 1.000, ma certamente i meno di due anni trascorsi dall’inizio del recupero e la famosa notte dei lunghi coltelli in cui i ministri dell’economia ed i governatori fissarono le parità fisse ed irrevocabili rappresentavano un lasso di tempo troppo breve per tornare a livelli di equilibrio nei cambi di mercato tra la lira e le principali valute europee.

Nonostante ciò, il negoziato avveniva con un cambio con il marco ormai intorno alle 950 lire ed il ritmo di recupero della nostra valuta unito ai risultati davvero eccezionali sull’ostico versante della finanza pubblica avrebbero consentito, come peraltro chiesero perentoriamente le delegazioni tedesche ed olandesi, di fissare il cambio almeno a 900-925 lire contro marco, per non parlare della possibilità di una fissazione che tenesse conto, come sarebbe stato possibile, di un livello ancora più basso ma più in linea con il cambio di lungo periodo tra le due valute, ma la delegazione italiana era irremovibile su di un cambio posto poco al di sopra delle 1.000 lire e si piegò solo quando si raggiunse il livello delle 990 lire che, pochi mesi dopo, si tradusse in 1.936,27 lire per un euro.

Quando il banditore, come insegnavano gli economisti neoclassici, si trovò a battere il suo strumento, tutti i valori espressi in lire, redditi, valori immobiliari e mobiliari, crediti, debiti e via discorrendo furono tramutati nel loro equivalente in euro, con il risultato che i cittadini dei paesi europei le cui valute che si erano rafforzate nella tempesta valutaria degli anni ’90 ottennero, in proporzione, più euro per i loro marchi, franchi francesi, franchi belgi, fiorini olandesi, persino per le loro peseta, mentre gli italiani si ritrovarono con redditi del 15-20 per cento almeno più bassi.

Lo stesso sarebbe dovuto accadere anche per i prezzi e le tariffe, ma la storia, come è noto, andò in un altro modo sia per fenomeni speculativi, sia perché, come aveva previsto uno studio della BCE che non ha circolato molto, l’adozione della moneta unica avrebbe prodotto in tempi relativamente brevi l’innalzamento del livello medio di quei paesi partecipanti che si trovavano ad un livello basso e l’abbassamento del livello medio dei prezzi per quei paesi che si trovavano su livelli viceversa elevati.

I risultati dei due fenomeni sono oggi sotto gli occhi di tutti ed è ora che qualcuno studi le opportune contromisure.

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