I 36 miliardi di dollari di svalutazioni e accantonamenti attribuibili a due sole, per quanto grandi, banche statunitensi, Citigroup e Merrill Lynch, ed i loro complessivi poco meno di 20 miliardi di dollari di perdite, le recenti stime fornite dal neo capo della Vigilanza della prudente Banca d’Italia sulle probabili perdite, cifrate a 600 miliardi di dollari, o quelle ancora più pessimistiche fornite dal professor Luigi Spaventa, che parla di almeno 1000 miliardi di dollari, sono solo alcuni degli elementi che rendono più comprensibili le mosse un po’ disperate di Ben Bernanke e compagni e dei loro solitamente arcigni colleghi della BCE, così come la raffica di piani mai finalizzati annunciati in pompa magna da un G. W. Bush, che li annuncia avendo sempre alle spalle, quali angeli custodi, il suo burbero vice Cheaney e l’ex numero uno di Goldman Sachs e pro tempore ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, i quali hanno sempre l’aria di temere che il loro alunno non sia in grado di ripetere bene la lezione che si sono sforzati in precedenza di impartirgli.
Il maxi piano di ristoro fiscale presentato venerdì, infatti, non si differenzia molto dallo strombazzato Hope Now che avrebbe dovuto porre in qualche modo rimedio alle difficoltà delle banche più che a quelle dei disperati mutuatari e che, proprio per questo, è impanatanato al Congresso da uno schieramento trasversale che sa bene che i voti di banche e finanziarie contano molto meno di quelli dei cittadini in un anno cruciale per la campagna presidenziale e per il rinnovo completo della Camera dei Rappresentanti e di parte del Senato, puntando, il nuovo piano, a destinare alle imprese ben un terzo delle risorse disponibili, tra 140 e 150 miliardi di dollari, mentre i politici di entrambi gli schieramenti hanno chiaramente detto che tutta la dotazione, o larghissima parte di essa, deve essere destinata alle sempre più pessimiste ed inguaiate famiglie americane.
Vorrei chiarire che le idee che sono alla base dei due progetti presidenziali sono assolutamente incontestabili, in quanto vanno in qualche modo alla radice dei problemi dal lato della domanda (non a caso, sono entrambi tacciati di essere assolutamente keynesiani), ma il problema nasce quando le idee di fondo vengono passate al vaglio delle potenti lobbies esistenti in modo del tutto legale negli Stati Uniti d’America, vaglio che si trasforma immediatamente in un risultato finale che riconferma ancora una volta il giovane rampollo di una casata scarsamente indagata nelle sue origini, come è quella dei Bush, come una sorta di Robin Hood alla rovescia e le sue ricette sempre più evidentemente caratterizzate da un crescente tasso di inefficacia, prima ancora che di plateale ingiustizia.
Venerdì è accaduto negli Stati Uniti quello che si temeva ormai da qualche settimana, con l’agenzia di rating Fitch che, battendo sul tempo le due prestigiose ma un po’ frastornate rivali, ha deciso di abbassare il rating di Ambac dalla indispensabile tripla A alla doppia A, ma calcando di più la mano sulla controllata Ambac Financial ridotta ad una sola A, decisione che era stata in modo preveggente anticipata dal mercato che aveva falcidiato in due sole sedute il valore dell’azione della sfortunata compagnia monoline e che è stata resa nota proprio mentre era in corso un timido rimbalzo della quotazione, rimbalzo, ovviamente, prontamente abortito negli ultimi dieci minuti di contrattazione.
I rintocchi della campana a morto risuonata per Ambac sono stati uditi chiari e forti nella sede centrale del colosso MBIA, il cui board of directors ancora pensava che l’aumento di capitale di un miliardo di dollari potesse rappresentare una misura sufficiente per evitare, a sua volta, l’onta di un downgrade esiziale per le sue attività, una degradazione che, ne sono più che sicuro, è solo rinviata, e di non molto, nel tempo.
Non vorrei apparire superstizioso, ma devo confessare che la tredicesima seduta dall’inizio dell’anno a Wall Street è anche quella che ha segnato la netta preponderanza delle flessioni rispetto ai, sempre più timidi, recuperi, dei tre principali indici statunitensi, né credo che possa consolare alcuno il fatto che la flessione a chiusura dell’ottava di borsa sia stata meno pesante delle altre segnalate nella stessa settimana, anche perché, al di là delle possibili critiche e puntualizzazioni, la giornata si era aperta con l’annuncio di un intervento fiscale che, pur nel suo carattere spot e non strutturale, presenta dimensioni pari a cinque o sei medie leggi finanziarie nel nostro Paese.
Nonostante i successi conseguiti dalla Banca Centrale Europea nella sua strenua lotta contro il clima di reciproca sfiducia esistente tra le banche europee di ogni ordine e grado, una campagna condotta con iniezioni di liquidità decisamente abnormi e con la rivoluzionaria decisione di accettare anche i titoli della finanza strutturata, ormai considerati decisamente al di sotto dei famigerati junk bonds, a garanzia dei finanziamenti così generosamente elargiti, un successo cifrabile in spreads superiori di "soli" 50 punti base ai tassi ufficiali nella scadenza a tre mesi, ricominciano a circolare, tra i giornalisti economici solitamente ben informati, voci di difficoltà crescenti per più di un continental player operante nell’area europea, Gran Bretagna ed extracomunitaria Svizzera incluse.
Come ho avuto più volte modo di sottolineare, esiste una differenza temporale rilevantissima tra l’informazione societaria statunitense e quella europea, differenza a tutti visibile in questi giorni, con le banche USA che stanno progressivamente alzando il velo sul disastro annidato nei loro conti, con un outing collettivo che sarà definito nelle sue dimensioni entro pochi giorni, mentre per le indiziate banche europee sarà necessaria un’attesa che, nella migliore delle ipotesi, è nell’ordine di alcune settimane.
Pur dubitando dell’esistenza dell’ormai mitico giudice a Berlino, anche dopo i crescenti guai in cui incorrono i magistrati italiani sempre più spesso messi alla gogna per per il solo crimine di fare il loro mestiere senza guardare in faccia a nessuno, oso avanzare il suggerimento alle banche europee di ogni ordine e grado, anche al fine di porre termine a rumors che non posso che augurarmi siano del tutto infondati, di decidere unilateralmente di fornire al più presto anticipazioni sullo stato dei loro conti per l’ultimo quadrimestre e per l’intero esercizio 2007, anche perché ho fondati motivi per ritenere che né la BCE, né le autorità di vigilanza sui rispettivi mercati e, tantomeno, i governi prenderanno provvedimenti volti a che questo avvenga.
Ovviamente, il mio modesto suggerimento è esteso alle entità off balance sheets (SIV, Conduite quant'altro), alle compagnie di assicurazione, agli hedge funds ed a tutte le altre variegate entità che popolano un mercato finanziario europeo che, nella sola parte in qualche modo collegata alla finanza, presenta un attivo complessivo che, almeno a valori nominali, si aggira sui 20 mila miliardi di dollari.
Il maxi piano di ristoro fiscale presentato venerdì, infatti, non si differenzia molto dallo strombazzato Hope Now che avrebbe dovuto porre in qualche modo rimedio alle difficoltà delle banche più che a quelle dei disperati mutuatari e che, proprio per questo, è impanatanato al Congresso da uno schieramento trasversale che sa bene che i voti di banche e finanziarie contano molto meno di quelli dei cittadini in un anno cruciale per la campagna presidenziale e per il rinnovo completo della Camera dei Rappresentanti e di parte del Senato, puntando, il nuovo piano, a destinare alle imprese ben un terzo delle risorse disponibili, tra 140 e 150 miliardi di dollari, mentre i politici di entrambi gli schieramenti hanno chiaramente detto che tutta la dotazione, o larghissima parte di essa, deve essere destinata alle sempre più pessimiste ed inguaiate famiglie americane.
Vorrei chiarire che le idee che sono alla base dei due progetti presidenziali sono assolutamente incontestabili, in quanto vanno in qualche modo alla radice dei problemi dal lato della domanda (non a caso, sono entrambi tacciati di essere assolutamente keynesiani), ma il problema nasce quando le idee di fondo vengono passate al vaglio delle potenti lobbies esistenti in modo del tutto legale negli Stati Uniti d’America, vaglio che si trasforma immediatamente in un risultato finale che riconferma ancora una volta il giovane rampollo di una casata scarsamente indagata nelle sue origini, come è quella dei Bush, come una sorta di Robin Hood alla rovescia e le sue ricette sempre più evidentemente caratterizzate da un crescente tasso di inefficacia, prima ancora che di plateale ingiustizia.
Venerdì è accaduto negli Stati Uniti quello che si temeva ormai da qualche settimana, con l’agenzia di rating Fitch che, battendo sul tempo le due prestigiose ma un po’ frastornate rivali, ha deciso di abbassare il rating di Ambac dalla indispensabile tripla A alla doppia A, ma calcando di più la mano sulla controllata Ambac Financial ridotta ad una sola A, decisione che era stata in modo preveggente anticipata dal mercato che aveva falcidiato in due sole sedute il valore dell’azione della sfortunata compagnia monoline e che è stata resa nota proprio mentre era in corso un timido rimbalzo della quotazione, rimbalzo, ovviamente, prontamente abortito negli ultimi dieci minuti di contrattazione.
I rintocchi della campana a morto risuonata per Ambac sono stati uditi chiari e forti nella sede centrale del colosso MBIA, il cui board of directors ancora pensava che l’aumento di capitale di un miliardo di dollari potesse rappresentare una misura sufficiente per evitare, a sua volta, l’onta di un downgrade esiziale per le sue attività, una degradazione che, ne sono più che sicuro, è solo rinviata, e di non molto, nel tempo.
Non vorrei apparire superstizioso, ma devo confessare che la tredicesima seduta dall’inizio dell’anno a Wall Street è anche quella che ha segnato la netta preponderanza delle flessioni rispetto ai, sempre più timidi, recuperi, dei tre principali indici statunitensi, né credo che possa consolare alcuno il fatto che la flessione a chiusura dell’ottava di borsa sia stata meno pesante delle altre segnalate nella stessa settimana, anche perché, al di là delle possibili critiche e puntualizzazioni, la giornata si era aperta con l’annuncio di un intervento fiscale che, pur nel suo carattere spot e non strutturale, presenta dimensioni pari a cinque o sei medie leggi finanziarie nel nostro Paese.
Nonostante i successi conseguiti dalla Banca Centrale Europea nella sua strenua lotta contro il clima di reciproca sfiducia esistente tra le banche europee di ogni ordine e grado, una campagna condotta con iniezioni di liquidità decisamente abnormi e con la rivoluzionaria decisione di accettare anche i titoli della finanza strutturata, ormai considerati decisamente al di sotto dei famigerati junk bonds, a garanzia dei finanziamenti così generosamente elargiti, un successo cifrabile in spreads superiori di "soli" 50 punti base ai tassi ufficiali nella scadenza a tre mesi, ricominciano a circolare, tra i giornalisti economici solitamente ben informati, voci di difficoltà crescenti per più di un continental player operante nell’area europea, Gran Bretagna ed extracomunitaria Svizzera incluse.
Come ho avuto più volte modo di sottolineare, esiste una differenza temporale rilevantissima tra l’informazione societaria statunitense e quella europea, differenza a tutti visibile in questi giorni, con le banche USA che stanno progressivamente alzando il velo sul disastro annidato nei loro conti, con un outing collettivo che sarà definito nelle sue dimensioni entro pochi giorni, mentre per le indiziate banche europee sarà necessaria un’attesa che, nella migliore delle ipotesi, è nell’ordine di alcune settimane.
Pur dubitando dell’esistenza dell’ormai mitico giudice a Berlino, anche dopo i crescenti guai in cui incorrono i magistrati italiani sempre più spesso messi alla gogna per per il solo crimine di fare il loro mestiere senza guardare in faccia a nessuno, oso avanzare il suggerimento alle banche europee di ogni ordine e grado, anche al fine di porre termine a rumors che non posso che augurarmi siano del tutto infondati, di decidere unilateralmente di fornire al più presto anticipazioni sullo stato dei loro conti per l’ultimo quadrimestre e per l’intero esercizio 2007, anche perché ho fondati motivi per ritenere che né la BCE, né le autorità di vigilanza sui rispettivi mercati e, tantomeno, i governi prenderanno provvedimenti volti a che questo avvenga.
Ovviamente, il mio modesto suggerimento è esteso alle entità off balance sheets (SIV, Conduite quant'altro), alle compagnie di assicurazione, agli hedge funds ed a tutte le altre variegate entità che popolano un mercato finanziario europeo che, nella sola parte in qualche modo collegata alla finanza, presenta un attivo complessivo che, almeno a valori nominali, si aggira sui 20 mila miliardi di dollari.
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