L’estensione sempre più netta ai mercati azionari di tutto il mondo dei riflessi negativi della tempesta perfetta innescatasi il 9 agosto scorso sui mercati interbancari con il verificarsi della più grave crisi di liquidità dal secondo dopoguerra è ormai sotto gli occhi di tutti, mettendo fine a quello strano fenomeno che aveva visto, quasi sino alla fine dell’anno che si è appena concluso, i listini azionari USA mostrarsi quasi indifferenti ai patemi vissuti dalle banche globali, toccando nuovi massimi storici, nel caso del Dow Jones e dello S&P 500, o massimi di fase per quel Nasdaq Composite che non può realisticamente pensare di rivedere quelli livelli posti immediatamente al di sopra della soglia dei 5000 punti dalla quale è definitivamente precipitato dopo lo scoppio della bolla dei titoli della new technology nel 2000-2001.
Le molteplici cause che erano alla base del decoupling tra le borse e le sofferenze del mercato creditizio, individuabili nella speranza andata delusa dell’efficacia dell’interventismo spinto delle banche centrali sui due fronti dei tassi di interesse e della liquidità, la messa in campo dei massicci programmi di buy back autorizzati in precedenza da banche e corporations USA, l’operare aggressivo sull’elevata volatilità degli hedge funds, le scelte semi automatiche sui supporti dei modelli adottati dai principali operatori, l’ingresso in campo del forte volume di fuoco a disposizione dei fondi governativi dei paesi esportatori di petrolio e dei paesi asiatici caratterizzati da attivi strutturali nelle rispettive bilance commerciali, solo per citare le cause più visibili, sembrano aver esaurito, con il giro di boa del nuovo anno, la loro pur rilevante efficacia.
Non va sottovalutato il fatto che, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, la tenuta sostanziale delle borse si accompagnava a perdite medie delle quotazioni delle banche di ogni ordine e grado e delle principali compagnie di assicurazione monoline impegnate nel fornire garanzie all’emissione dei titoli della finanza strutturata cifrabili intorno al 40 per cento, fatte salve poche eccezioni quali Goldman Sachs da un lato e un gruppo sparuto di banche europee poco esposte sul versante finanziario che erano riuscite a contenere le perdite rispetto ai massimi della prima parte del 2007 a livelli di poco superiori al 10 per cento.
Le prime tredici sedute delle borse USA (chiuso ieri per la festività nazionale in memoria di Martin Luther King) e le quattordici svoltesi sui mercati europei ed asiatici hanno visto sostanzialmente l’evaporazione quasi assoluta delle quotazioni dei colossi assicurativi monoline statunitensi MBIA e Ambac (hanno perso, rispetto al picco delle ultime 52 settimane, il 90 e il 95 per cento del valore), due grandi banche USA, dopo aver perso in un trimestre 10 miliardi di dollari a testa, hanno visto evaporare oltre il 50 per cento dai massimi del 2007, si è aperto il più grande processo di concentrazione nell’ambito dell’industria creditizia statunitense e le maggiori banche europee sono ormai giunte a capitalizzazioni di borsa ormai a valori di saldo.
E’ in questo scenario francamente sconfortante, anche al netto del vero e proprio terremoto in corso sul mercato valutario, che sono uscite da una sorta di anonimato e da un certo torpore quei nuovi soggetti alimentati da un vero e proprio fiume di petrodollari e di dollari e altre valute derivanti dai cronici e crescenti surplus delle bilance delle partite correnti dei paesi asiatici, Cina in testa, quei fondi governativi con dotazioni complessive per diverse migliaia di miliardi di euro che hanno deciso che questo meltdown finanziario rappresentava il momento più giusto per la loro, poco coordinata in verità, discesa in campo.
Ma poiché ricchi non significa necessariamente fessi, le prime mosse dei fondi arabi ed asiatici in soccorso delle principali banche statunitensi e dell’extracomunitaria UBS si sono quasi sempre tradotti nella sottoscrizione di megaprestiti obbligazionari convertibili che danno il diritto di acquistare azioni delle banche emittenti in un comodo arco temporale e garantiscono, nel frattempo, rendimenti compresi tra il 9 e l’11 per cento, rendimenti che fanno certamente bene alle consistenti casse dei fondi governativi, ma che la dicono anche lunga sullo stato di salute presente prospettico delle alquanto malandate banche emittenti, basti pensare che, sino a pochi mesi orsono, era considerato scandaloso lo yield di poco superiore al 7 per cento garantito sulle obbligazioni emesse da Citigroup.
La stessa tecnica dell’intervento, peraltro, fa ritenere che, almeno al momento, non vi siano nei gestori di questi fondi e, ancor più, nelle sofisticate banche d’affari che fanno loro da advisors, alcuna intenzione di passare ad un intervento diretto e più massiccio che, al di là delle prevedibili resistenze statunitensi, svizzere ed europee, avrebbe avuto un impatto maggiormente tranquillizzanti in un mercato finanziario globale che vive la più grave lack of confidence degli ultimi sessanta anni.
Uno sguardo alle dotazioni complessive per paese di questi nuovi soggetti non è fur di luogo o soverchiamente indiscreta, basti pensare che il neonato fondo riconducibile all’Arabia Saudita nasce con una dotazione di 1.000 miliardi di dollari, che superano la dotazione dei rodati fondi di uno dei piccoli ma ricchissimi paesi del Golfo Arabico che ne totalizzano “solo” 900 di miliardi, sempre di dollari, mentre la dotazione complessivi dei fondi governativi cinesi è stimata in un range compreso tra 1.300 e 1.400 miliardi di dollari, né va sottovalutata la dotazione complessiva di tutti gli altri fondi arabi ed asiatici che, secondo una stima prudente e in larga misura approssimata per difetto, non dovrebbe essere inferiore ad altri 2 mila miliardi di dollari.
Secondo le ultime stime fornite dal Fondo Monetario Internazionale, oltre ad intervenire come una sorta di prestatori di ultima istanza, i fondi governativi sono massicciamente impegnati nel più rilevante processo di riequilibrio dei pesi relativi delle diverse valute principali nelle loro dotazioni che, almeno inizialmente erano quasi esclusivamente in dollari, processo che le rispettive banche centrali stanno mettendo in atto da molti anni e che minaccia di portare il peso del dollaro sul totale delle valute convertibili detenute al di sotto della soglia del 60 per cento, con un netto recupero dei pesi relativi dell’euro e dello yen, mentre meno significativo dovrebbe essere il progresso della sterlina.
Altrettanto attivi sembrano essere questi fondi nell’accumulazioni di posizioni fisiche o mediante strumenti derivati in oro e altri metalli preziosi, ma, più in generale, nelle materie prime petrolifere o di altro genere e, the last but not the least, nel non disprezzabile mercato delle derrate alimentari, sempre mediante contratti spot e derivati.
E’ difficile prevedere gli sviluppi dell’operatività di questi fondi che devono rendere conto solo ai loro governi, ma è sicuro che oscureranno le stelle ormai discendenti dei private equity e degli altri investitori istituzionali tradizionali.
Le molteplici cause che erano alla base del decoupling tra le borse e le sofferenze del mercato creditizio, individuabili nella speranza andata delusa dell’efficacia dell’interventismo spinto delle banche centrali sui due fronti dei tassi di interesse e della liquidità, la messa in campo dei massicci programmi di buy back autorizzati in precedenza da banche e corporations USA, l’operare aggressivo sull’elevata volatilità degli hedge funds, le scelte semi automatiche sui supporti dei modelli adottati dai principali operatori, l’ingresso in campo del forte volume di fuoco a disposizione dei fondi governativi dei paesi esportatori di petrolio e dei paesi asiatici caratterizzati da attivi strutturali nelle rispettive bilance commerciali, solo per citare le cause più visibili, sembrano aver esaurito, con il giro di boa del nuovo anno, la loro pur rilevante efficacia.
Non va sottovalutato il fatto che, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, la tenuta sostanziale delle borse si accompagnava a perdite medie delle quotazioni delle banche di ogni ordine e grado e delle principali compagnie di assicurazione monoline impegnate nel fornire garanzie all’emissione dei titoli della finanza strutturata cifrabili intorno al 40 per cento, fatte salve poche eccezioni quali Goldman Sachs da un lato e un gruppo sparuto di banche europee poco esposte sul versante finanziario che erano riuscite a contenere le perdite rispetto ai massimi della prima parte del 2007 a livelli di poco superiori al 10 per cento.
Le prime tredici sedute delle borse USA (chiuso ieri per la festività nazionale in memoria di Martin Luther King) e le quattordici svoltesi sui mercati europei ed asiatici hanno visto sostanzialmente l’evaporazione quasi assoluta delle quotazioni dei colossi assicurativi monoline statunitensi MBIA e Ambac (hanno perso, rispetto al picco delle ultime 52 settimane, il 90 e il 95 per cento del valore), due grandi banche USA, dopo aver perso in un trimestre 10 miliardi di dollari a testa, hanno visto evaporare oltre il 50 per cento dai massimi del 2007, si è aperto il più grande processo di concentrazione nell’ambito dell’industria creditizia statunitense e le maggiori banche europee sono ormai giunte a capitalizzazioni di borsa ormai a valori di saldo.
E’ in questo scenario francamente sconfortante, anche al netto del vero e proprio terremoto in corso sul mercato valutario, che sono uscite da una sorta di anonimato e da un certo torpore quei nuovi soggetti alimentati da un vero e proprio fiume di petrodollari e di dollari e altre valute derivanti dai cronici e crescenti surplus delle bilance delle partite correnti dei paesi asiatici, Cina in testa, quei fondi governativi con dotazioni complessive per diverse migliaia di miliardi di euro che hanno deciso che questo meltdown finanziario rappresentava il momento più giusto per la loro, poco coordinata in verità, discesa in campo.
Ma poiché ricchi non significa necessariamente fessi, le prime mosse dei fondi arabi ed asiatici in soccorso delle principali banche statunitensi e dell’extracomunitaria UBS si sono quasi sempre tradotti nella sottoscrizione di megaprestiti obbligazionari convertibili che danno il diritto di acquistare azioni delle banche emittenti in un comodo arco temporale e garantiscono, nel frattempo, rendimenti compresi tra il 9 e l’11 per cento, rendimenti che fanno certamente bene alle consistenti casse dei fondi governativi, ma che la dicono anche lunga sullo stato di salute presente prospettico delle alquanto malandate banche emittenti, basti pensare che, sino a pochi mesi orsono, era considerato scandaloso lo yield di poco superiore al 7 per cento garantito sulle obbligazioni emesse da Citigroup.
La stessa tecnica dell’intervento, peraltro, fa ritenere che, almeno al momento, non vi siano nei gestori di questi fondi e, ancor più, nelle sofisticate banche d’affari che fanno loro da advisors, alcuna intenzione di passare ad un intervento diretto e più massiccio che, al di là delle prevedibili resistenze statunitensi, svizzere ed europee, avrebbe avuto un impatto maggiormente tranquillizzanti in un mercato finanziario globale che vive la più grave lack of confidence degli ultimi sessanta anni.
Uno sguardo alle dotazioni complessive per paese di questi nuovi soggetti non è fur di luogo o soverchiamente indiscreta, basti pensare che il neonato fondo riconducibile all’Arabia Saudita nasce con una dotazione di 1.000 miliardi di dollari, che superano la dotazione dei rodati fondi di uno dei piccoli ma ricchissimi paesi del Golfo Arabico che ne totalizzano “solo” 900 di miliardi, sempre di dollari, mentre la dotazione complessivi dei fondi governativi cinesi è stimata in un range compreso tra 1.300 e 1.400 miliardi di dollari, né va sottovalutata la dotazione complessiva di tutti gli altri fondi arabi ed asiatici che, secondo una stima prudente e in larga misura approssimata per difetto, non dovrebbe essere inferiore ad altri 2 mila miliardi di dollari.
Secondo le ultime stime fornite dal Fondo Monetario Internazionale, oltre ad intervenire come una sorta di prestatori di ultima istanza, i fondi governativi sono massicciamente impegnati nel più rilevante processo di riequilibrio dei pesi relativi delle diverse valute principali nelle loro dotazioni che, almeno inizialmente erano quasi esclusivamente in dollari, processo che le rispettive banche centrali stanno mettendo in atto da molti anni e che minaccia di portare il peso del dollaro sul totale delle valute convertibili detenute al di sotto della soglia del 60 per cento, con un netto recupero dei pesi relativi dell’euro e dello yen, mentre meno significativo dovrebbe essere il progresso della sterlina.
Altrettanto attivi sembrano essere questi fondi nell’accumulazioni di posizioni fisiche o mediante strumenti derivati in oro e altri metalli preziosi, ma, più in generale, nelle materie prime petrolifere o di altro genere e, the last but not the least, nel non disprezzabile mercato delle derrate alimentari, sempre mediante contratti spot e derivati.
E’ difficile prevedere gli sviluppi dell’operatività di questi fondi che devono rendere conto solo ai loro governi, ma è sicuro che oscureranno le stelle ormai discendenti dei private equity e degli altri investitori istituzionali tradizionali.
1 commento:
Non riterresti utile che FED e BCE intervengano e massicciamente per sostenere il sistema finanziario in luogo dei fondi dei paesi a cui hai accennato? Perchè BCE non riduce di 0.25 se non 0.50, per ridare ossigeno non solo alle imprese ma soprattutto alle famiglie? Perchè i G7 stanno a guardare?
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