I risultati presentati da Citigroup prima e da Merrill Lynch giovedì consentono di comprendere meglio il giudizio sostanzialmente positivo che ho dato sulla sostanziale tenuta dei conti di J.P. Morgan-Chase nel quarto trimestre 2007, sottolineando che gli stessi rappresentavano una bella rivincita di un modo più tradizionale di fare banca rispetto a quello dominante tra i principali e inguaiati concorrenti, banche e finanziarie che ormai più che credito facevano da intermediari tra clienti sempre meno conosciuti e investitori a caccia di alti rendimenti.
Ebbene, i disastrosi oltre ogni aspettativa risultati resi noti dal nuovo CEO di Merrill, l’ex numero uno del NYSE, John Thain, presentano una fotografia della banca statunitense che lascia letteralmente senza parole, con una perdita che supera i 10 miliardi di dollari e batte dunque quella evidenziata da una Citigroup che presenta un attivo molto più ragguardevole, una perdita non mitigata da alcuna forma di dividendo estratto dal cappello delle riserve, ma, soprattutto ricavi negativi per 8 miliardi circa di dollari contro gli 8 miliardi positivi del quarto trimestre 2006, quando gli utili si ponevano al livello di 2,3 miliardi di dollari.
Ma, al navigato ed astuto top manager statunitense appena approdato a Merrill a fronte di un lauto premio di ingaggio ed un contratto blindato, non mancano i motivi di soddisfazione per una situazione largamente diversa da quella che caratterizza il giovane CEO indiano di Citi, in quanto ha apposto la sua firma su conti che hanno posto quasi termine ai disastri della finanza strutturata con un’accelerazione che consente, come fanno quasi tutti i manager al loro esordio, di fare una pulizia radicale, caricando su un orribile 2007 del quale molto difficilmente può essere ritenuto responsabile tutto quello che può essere caricato e creando una pessima base di partenza al cui confronto i risultati futuri potrebbero brillare e non poco.
La svalutazione per 11,5 miliardi di dollari è, infatti, interamente dedicata ai micidiali CDO, così come ulteriori 3,1 miliardi sono destinati ad aggiustare le posizioni hedge assunte sugli stessi, il che consente a Merrill di ridurre da 15,8 a 4,8 miliardi di dollari l’esposizione sui CDO e di dimezzare a 2,71 l’esposizione nel comparto dei subprime residenziali, giungendo così a valori assoluti molto gestibili, per non parlare poi delle sopravvenienze attive che potrebbero realizzarsi su parte della montagna di titoli messi a perdita negli ultimi due trimestri dell’anno che si è appena concluso.
Da un certo punto di vista, poi, anche il disastroso dato delle nuove case realizzate nel 2007 negli Stati Uniti d’America, una flessione del 25 per cento circa che riporta al -26 per cento del 1980, quando, però, era in corso una feroce stretta creditizia che portò al licenziamento di Paul Volker, forse l’ultimo banchiere centrale USA realmente indipendente dal mercato e dalla politica, rappresenta una buona base di partenza per un 2008 che potrebbe essere peggiore solo se non si trovano efficaci rimedi all’effetto domino.
Non è, quindi, un caso se, dopo la scontata benedizione giunta, nel corso di un’audizione al Congresso, dal tutto meno che arcigno Ben Bernanke, oggi è previsto l’annuncio di Bush su un piano di sostegno ai redditi, via riduzioni di 300 o 500 dollari per contribuente a carattere spot o strutturale, un piano che dovrebbe facilmente ottenere un appoggio bipartisan, in qualche modo anticipato dalle esplicite dichiarazioni del presidente democratico della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi.
Quella che sembra difficile arrestare, invece, è la continuazione di quel processo apparentemente inarrestabile di liquefazione che continua a colpire i titoli dei due colossi assicurativi monoline, un processo che ha assunto giovedì caratteristiche realmente drammatiche, con i titoli di Ambac che hanno perso oltre il 50 per cento rispetto al valore di mercoledì, a sua volta in calo del 39 per cento rispetto a quello della seduta precedente, mentre MBIA conteneva le perdite al 31 per cento, una flessione che anche in questo caso viene dopo il tonfo del giorno precedente, con perdite, rispetto ai massimi delle ultime 52 settimane, dell’88 per cento per MBIA e di quasi il 94 per cento per Ambac, perdite che sono in linea nel mondo soltanto con quelle della tecnicamente fallita banca britannica Northern Rock e di quell’italica Italease che è ormai un groviglio di rischi finanziari, reputazionali e giudiziari e che rappresenta una vera e propria palla al piedi, o al collo, del controllante Banco Popolare.
Sorvolo allegramente sul tonfo degli indici asiatici, europei e su quelli di Wall Street di giovedì, così come su quelli asiatici di questa mattina, in quanto, come ho avuto più volte modo di sottolineare, questi non sono che pallidi riflessi di quello che sta realmente accadendo nel mercato finanziario globale.
Niente è più vero, in questa lunga e dall’esito incerto crisi finanziaria, del detto che vuole che ad ogni giorno basta la sua pena, per cui verrebbe la voglia di sorvolare sui rischi derivanti agli scommettitori sul mercato valutario derivanti dalla a loro sgradita ripresa dei corsi dello yen giapponese, una valuta che appare ormai chiaramente prescelta come rifugio da una parte non disprezzabile delle enormi disponibilità finanziarie della Cina, ma che vede più di una fiche gettata sul tavolo anche dai decision maker degli attualmente straripanti fondi governativi arabi.
Non deve essere piacevole per un carry trader vedere una sempre più accentuata riduzione dei differenziali dei tassi di interesse e uno speculare e deciso avvicinamento dello yen verso l’ area dei 100 dollari o meno e il probabile sfondamento del livello dei 150 euro che sembrano, entrambi, ormai nelle cose, una duplice eventualità che potrebbe determinare il botto di singoli investitori e di hedge fund che non abbiano l’abilità o, e questo è più probabile, i mezzi per girare in tempo le posizioni, anche se, ove questo dovesse accadere in modo massiccio, rischierebbe di amplificare a dismisura lo stesso rafforzamento dello yen.
Mentre resta vero che i bonus di Goldman Sachs e di altre grandi banche statunitensi non hanno risentito affatto dell’attuale situazione, mi sembra doveroso segnalare che, nel peggiore anno che il mercato finanziario si sia trovato a vivere negli ultimi decenni, la flessione complessiva dei bonus erogati a Wall Street è stata, addirittura, di qualcosa meno del 5 per cento a fronte di un monte complessivo che continua ad essere cifrato in centinaia di miliardi di dollari, una flessione che forse è da ricondurre alla drastica riduzione degli aventi diritto legata alle centinaia di migliaia di dipendenti di ogni ordine e grado che hanno dovuto forzatamente lasciare le loro più o meno dorate posizioni, mentre, come scrivevo ieri, un fenomeno della stessa lieve entità sta riguardando i 350 mila addetti della City londinese.
2 commenti:
Continua ad informarci perchè la tua opera è importante. Sono un tuo assiduo lettore.
Buongiorno, leggo sempre con estremo interesse il suo lucido diario. Ogni tanto qualcosa non la capisco, per mia deficienza nella materia, ma perlopiù apprezzo i suoi ragionamenti. Ora però le scrivo per farle rilevare che nel suo diaruio di venerdì scorso a un certo punto afferma che Paul Volcker premette talmente sui tassi (dal 13,5% al 3% nel giro di 3 anni, dal 1980 al 1983) da portare al suo licenziamento. Che tuttavia non avvenne, in quanto proprio nel 1983 Reagan lo riconfermò, fino al 1987. Ritiene che la sua ricetta monetarista oggi avrebbe più successo di quella "dell'elicottero" di Bernanke? A quanto pare, peggio di così...
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