Le due novità della fase attuale della crisi finanziaria sono indubbiamente rappresentate dall’avvio di processi di concentrazione quali l’acquisizione di Countrywide da parte di Bank of America e il sempre più probabile merger tra J.P. Morgan-Chase e Washington Mutual e da quella ricerca quasi spasmodica di nuovi capitali, in genere provenienti dall’estero, che sta caratterizzando ormai quasi tutte le banche, le finanziarie e le compagnie di assicurazione monoline operanti nel mercato finanziario statunitense.
In uno scenario che vede quasi tutte le regole saltare per aria, abbiamo assistito nei giorni scorsi ad annunci di concentrazioni di grande rilevanza effettuati a mercati aperti e senza neanche la preventiva sospensione della contrattazione dei titoli delle società coinvolte, il che è in parte comprensibile ove si pensi alla quasi liquefazione del titolo di Countrywide, con flessioni di entità tale da rendere complessa la fissazione, nell’ambito del deal con Bank of America, dello scambio azionario che già si collocava su valori che superavano la quotazione della banca di Calabasas del 30 per cento, mentre, nel caso di Washington Mutual, il prematuro annuncio dà modo all’azione di riportarsi verso i valori previsti dallo scambio di carta contro carta.
Mentre operatori ed analisti assistono quasi ipnotizzati alla ripresa del processo di concentrazione, un processo che è solo ai suoi primi passi, diventa quasi inquietante il fenomeno dell’afflusso di capitali stranieri in soccorso delle principali entità del mercato finanziario, un afflusso che nella maggior parte dei casi prende la forma di prestiti obbligazionari convertibili in un futuro più o meno prossimo e caratterizzati da tassi di interesse molto elevati ed esplicativi dello stato di difficoltà nel quale versano le entità soccorse.
Al di là della sorpresa per l’abbattimento delle soglie, anche psicologiche, da tempo erette contro gli investitori stranieri in settori considerati altamente strategici per gli interessi nazionali della più grande potenza economica del mondo, non c’è che da essere stupiti dall’attivismo dei fondi governativi asiatici e di quelli arabi, nonché degli interventi ascrivibili a singoli e facoltosissimi investitori, come il principe saudita Alwhaaleed che punta ad eguagliare la quota di poco meno del 5 per cento recentemente ipotecata dal fondo governativo di Abu Dhabi, mentre non è ancora sceso in campo il neonato ma dotatissimo fondo governativo dell’Arabia Saudita.
Nell’anno delle presidenziali statunitensi e del rinnovo del Congresso e in una campagna elettorale che vede, sia nel campo democratico che in quello repubblicano, i temi economici, ed in particolare quelli finanziari, scalzare prepotentemente il tema della guerra dalla lista delle priorità dei candidati e dell’opinione pubblica, questo assalto dei capitali stranieri alla stanza dei bottoni del cuore del potere economico statunitense non passa inosservato né sono da escludere convergenze bipartisan foriere di disegni di legge e di provvedimenti legislativi volti a contrastare un fenomeno che certamente preoccupa di più degli stessi surplus commerciali a carattere ormai strutturale che alimentano gli stessi fondi governativi asiatici ed arabi.
D’altra parte, sorprende alquanto che si sia toccato il record di fase nel disavanzo della bilancia commerciale USA in novembre pur con il sensibile aiuto che il dollaro ipersvalutato sta fornendo all’export, agendo al contempo come forte deterrente per le importazioni statunitensi, anche se va detto che, nello stesso mese, si è toccato il record della bolletta petrolifera a stelle e strisce.
Mentre si infittiscono le preoccupazioni per l’esplosione del credito al consumo e per la vera e propria esplosione delle sofferenze sullo stesso, diventa sempre più consistente il fenomeno del credit crunch e dell’ innalzamento sempre più sensibile del costo di quella merce sempre più rara rappresentata dal finanziamento all’economia, fenomeni che si stanno scaricando in modo quasi drammatico sull’acquisto rateale delle automobili, problema che incide molto di più sulle case automobilistiche americane che sulle agguerrite concorrenti giapponesi ed europee.
E’ dall’inizio del diario che invito a vedere questa crisi finanziaria come derivante dai guasti della finanza strutturata, sotto fenomeno a sua volta del più grande trasferimento del rischio dagli eroganti al mercato mai registrato dal secondo dopoguerra, invitando i miei pochi lettori a non farsi incantare dalle analisi dominanti che vedono nel settore immobiliare e in quella rea marginale dello stesso che è rappresentata dai mutui offerti alle fasce marginali di clientela e che hanno preso il nome di mutui subprime.
Noto con piacere che, a cinque mesi di distanza dalla maggiore crisi di liquidità mai registrata dal mercato interbancario globale, questa analisi sta prendendo sempre più piede e che sempre più economisti ed analisti si chiedono cosa mai centri con la forte flessione della domanda di LBO, CDO, Commercial Papers e di tutte le altre diavolerie sfornate dalla fabbriche prodotto delle banche globali, la questione dei subprime, se non per il semplice fatto che questi ultimi sono stati allegramente impacchettati in titoli ai quali le altrettanto allegre società di rating avevano attribuito la massima valutazione possibile.
Se vi fosse ancora qualche dubbio sullo stato di confusione regnante in Gran Bretagna, basterebbe osservare il macabro balletto in corso sulle spoglie di quella che una volta era l’ottava banca del Regno Unito e la quinta entità nel mortgage locale, con il Governo britannico sul quale grava la garanzia un po’ affrettatamente estesa a tutti i depositi della un po’ incauta banca che continua a non avere idea di una possibile soluzione che non sia la nazionalizzazione della stessa e che nel frattempo sta favorendo, via cartolarizzazione, il collocamento alle banche di mezzo mondo di grandi quantità delle attività di migliore qualità di cui la banca era in possesso.
A quasi dieci giorni di distanza dai dieci arresti di dirigenti ed amministratori della Banca Assett e della sua controllata romagnola monosportello, nonche dall’icriminazione di 37 imprenditori italiani e dall’autolicenziamento del Governatore della banca centrale della Repubblica di San Marino, finalmente qualche giornale comincia, anche se timidamente, ad occuparsi di un caso che definire inquietante è usare un vero e proprio eufemismo, ma, come si suole dire, meglio tardi che mai.
In uno scenario che vede quasi tutte le regole saltare per aria, abbiamo assistito nei giorni scorsi ad annunci di concentrazioni di grande rilevanza effettuati a mercati aperti e senza neanche la preventiva sospensione della contrattazione dei titoli delle società coinvolte, il che è in parte comprensibile ove si pensi alla quasi liquefazione del titolo di Countrywide, con flessioni di entità tale da rendere complessa la fissazione, nell’ambito del deal con Bank of America, dello scambio azionario che già si collocava su valori che superavano la quotazione della banca di Calabasas del 30 per cento, mentre, nel caso di Washington Mutual, il prematuro annuncio dà modo all’azione di riportarsi verso i valori previsti dallo scambio di carta contro carta.
Mentre operatori ed analisti assistono quasi ipnotizzati alla ripresa del processo di concentrazione, un processo che è solo ai suoi primi passi, diventa quasi inquietante il fenomeno dell’afflusso di capitali stranieri in soccorso delle principali entità del mercato finanziario, un afflusso che nella maggior parte dei casi prende la forma di prestiti obbligazionari convertibili in un futuro più o meno prossimo e caratterizzati da tassi di interesse molto elevati ed esplicativi dello stato di difficoltà nel quale versano le entità soccorse.
Al di là della sorpresa per l’abbattimento delle soglie, anche psicologiche, da tempo erette contro gli investitori stranieri in settori considerati altamente strategici per gli interessi nazionali della più grande potenza economica del mondo, non c’è che da essere stupiti dall’attivismo dei fondi governativi asiatici e di quelli arabi, nonché degli interventi ascrivibili a singoli e facoltosissimi investitori, come il principe saudita Alwhaaleed che punta ad eguagliare la quota di poco meno del 5 per cento recentemente ipotecata dal fondo governativo di Abu Dhabi, mentre non è ancora sceso in campo il neonato ma dotatissimo fondo governativo dell’Arabia Saudita.
Nell’anno delle presidenziali statunitensi e del rinnovo del Congresso e in una campagna elettorale che vede, sia nel campo democratico che in quello repubblicano, i temi economici, ed in particolare quelli finanziari, scalzare prepotentemente il tema della guerra dalla lista delle priorità dei candidati e dell’opinione pubblica, questo assalto dei capitali stranieri alla stanza dei bottoni del cuore del potere economico statunitense non passa inosservato né sono da escludere convergenze bipartisan foriere di disegni di legge e di provvedimenti legislativi volti a contrastare un fenomeno che certamente preoccupa di più degli stessi surplus commerciali a carattere ormai strutturale che alimentano gli stessi fondi governativi asiatici ed arabi.
D’altra parte, sorprende alquanto che si sia toccato il record di fase nel disavanzo della bilancia commerciale USA in novembre pur con il sensibile aiuto che il dollaro ipersvalutato sta fornendo all’export, agendo al contempo come forte deterrente per le importazioni statunitensi, anche se va detto che, nello stesso mese, si è toccato il record della bolletta petrolifera a stelle e strisce.
Mentre si infittiscono le preoccupazioni per l’esplosione del credito al consumo e per la vera e propria esplosione delle sofferenze sullo stesso, diventa sempre più consistente il fenomeno del credit crunch e dell’ innalzamento sempre più sensibile del costo di quella merce sempre più rara rappresentata dal finanziamento all’economia, fenomeni che si stanno scaricando in modo quasi drammatico sull’acquisto rateale delle automobili, problema che incide molto di più sulle case automobilistiche americane che sulle agguerrite concorrenti giapponesi ed europee.
E’ dall’inizio del diario che invito a vedere questa crisi finanziaria come derivante dai guasti della finanza strutturata, sotto fenomeno a sua volta del più grande trasferimento del rischio dagli eroganti al mercato mai registrato dal secondo dopoguerra, invitando i miei pochi lettori a non farsi incantare dalle analisi dominanti che vedono nel settore immobiliare e in quella rea marginale dello stesso che è rappresentata dai mutui offerti alle fasce marginali di clientela e che hanno preso il nome di mutui subprime.
Noto con piacere che, a cinque mesi di distanza dalla maggiore crisi di liquidità mai registrata dal mercato interbancario globale, questa analisi sta prendendo sempre più piede e che sempre più economisti ed analisti si chiedono cosa mai centri con la forte flessione della domanda di LBO, CDO, Commercial Papers e di tutte le altre diavolerie sfornate dalla fabbriche prodotto delle banche globali, la questione dei subprime, se non per il semplice fatto che questi ultimi sono stati allegramente impacchettati in titoli ai quali le altrettanto allegre società di rating avevano attribuito la massima valutazione possibile.
Se vi fosse ancora qualche dubbio sullo stato di confusione regnante in Gran Bretagna, basterebbe osservare il macabro balletto in corso sulle spoglie di quella che una volta era l’ottava banca del Regno Unito e la quinta entità nel mortgage locale, con il Governo britannico sul quale grava la garanzia un po’ affrettatamente estesa a tutti i depositi della un po’ incauta banca che continua a non avere idea di una possibile soluzione che non sia la nazionalizzazione della stessa e che nel frattempo sta favorendo, via cartolarizzazione, il collocamento alle banche di mezzo mondo di grandi quantità delle attività di migliore qualità di cui la banca era in possesso.
A quasi dieci giorni di distanza dai dieci arresti di dirigenti ed amministratori della Banca Assett e della sua controllata romagnola monosportello, nonche dall’icriminazione di 37 imprenditori italiani e dall’autolicenziamento del Governatore della banca centrale della Repubblica di San Marino, finalmente qualche giornale comincia, anche se timidamente, ad occuparsi di un caso che definire inquietante è usare un vero e proprio eufemismo, ma, come si suole dire, meglio tardi che mai.
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