La lettura mattutina dei principali quotidiani del lunedì e di quelli finanziari del fine settimana mi ha lasciato letteralmente senza parole, in quanto, fatta eccezione per un trafiletto su Il Sole 24 Ore di domenica 6, non ho trovato alcuna notizia sui 10 arresti dei dieci tra dirigenti ed amministratori della banca Assett della repubblica di San Marino e della controllata Banca di Credito e Risparmio della Romagna, una banca monosportello ma estremamente attiva nel dirottare ingenti capitali verso la repubblica del Titano e nel concedere prestiti alle imprese garantite da quegli stessi capitali che, secondo la procura di Forlì, erano frutto di reati a livello aziendale se non di vero e proprio riciclaggio di denaro sporco.
Non penso, peraltro, che il clima ancora festivo, accentuato dal fatto che la notizia è stata battuta dall’ANSA nel pomeriggio del sabato, possano essere una valida giustificazione per un buco giornalistico così clamoroso, anche perché, come ho già avuto modo di scrivere a caldo (vedi la puntata di domenica sul mio blog), la tecnica utilizzata sia sul versante sanmarinese che su quello romagnolo è identica a quella utilizzata negli ultimi tre decenni del secolo scorso da banche di ben maggiore importanza che accontentavano la loro migliore clientela aprendole comode e sicure vie per l’espatrio dei capitali di provenienza più o meno lecita, capitali che spesso rientravano come prestiti esterovestiti alle aziende di cui erano titolari gli stessi clienti con costi in termini di interessi che potevano legittimamente essere utilizzati dalle stesse imprese clienti a fini fiscali, aggiungendo così al danno per l’erario anche la beffa.
Ovviamente, per poter operare in questo modo, le banche italiane dovevano avere un’operatività a carattere almeno nazionale, essere dotate di una rete estera che, oltre alle filiali propriamente dette, doveva disporre di una o più banche partecipate e interamente controllata basate in paesi che spesso, negli anni successivi, sono finiti sulla famosa black list redatta dalle agenzie sovranazionali che si occupano del fenomeno del riciclaggio di capitali provenienti dalla malavita organizzata, dal traffico di droga e dall’operatività finanziaria del terrorismo internazionale, oltre che, come si è visto, dagli illeciti movimenti di capitale originati da una parte della clientela bancaria.
Come ho già ricordato, la breve ma intensa esperienza maturata partecipando ai lavori della Commissione antiriciclaggio del CNEL, mi consente, ad esempio, di esprimere un giudizio largamente positivo sulla decisione del Governatore Draghi di riportare nell’alveo della istituzione da lui guidata l’Ufficio Italiano dei Cambi, un’entità che definire burocratizzata equivale a farle un complimento e che, dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, era stata chiamata ad avere un ruolo nel contrasto al riciclaggio internazionale equivalente (sic) a quello svolto negli Stati Uniti d’America dagli uomini e dalle donne che fanno parte del Federal Bureau of Investigations.
Non svelo, peraltro, alcun segreto di ufficio, ricordando di essere stato, assieme agli altri membri della commissione, testimone di uno scontro aperto tra esponenti della Banca d’Italia e dello UIC che era, in effetti, un organismo dalla stessa controllato, uno scontro che aveva ad oggetto i metodi, le finalità, i moduli organizzativi ed i ritardi di un’entità pubblica che non è riuscita ad assolvere ad un compito che rivestiva, e riveste, un’importanza fondamentale per assicurare all’Italia il controllo dei flussi di capitale, il contrasto dei fenomeni malavitosi di ogni ordine e specie e, almeno negli ultimi sei anni, anche una questione fondamentale quale la stessa sicurezza dei cittadini.
Si aprono oggi a Basilea i lavori del G10 finanziario, la riunione cioè dei ministri dell’economia e dei numeri uno dei dieci paesi maggiormente industrializzati, e gli operatori sono in viva attesa, un’attesa che sfiora in alcuni casi l’ansia, per la diagnosi e le terapie che verranno fuori dai lavori di questo consesso, anche perché è ormai a tutti chiaro che la terapia attualmente messa in campo dalle principali banche centrali, in primis da quella BCE che sta inondando i mercati interbancari di liquidità ma non riesce a prendere decisioni sui tassi di interesse, sta producendo dei risultati molto parziali e caratterizzati da poca stabilità sul fronte dei tassi, mentre, come era prevedibile, si stanno trasformando in un boomerang gli altrettanto massicci interventi effettuati sul fronte valutario, basti pensare a quello che sta accadendo sul cruciale cross dollaro/yen che non riesce da giorni a riportarsi al di sopra della soglia di 110 yen per dollaro.
Non credo, d’altra parte, che il professor Mario Draghi, nella sua veste di presidente del Financial Stability Forum, vorrà anticipare parte delle conclusioni del gruppo di lavoro da lui presieduto, anche perché ritengo che si atterrà al programma che vede una sua prima relazione a marzo, in margine ai lavori del G7, un’attesa di due mesi che sarà molto lunga per un mercato che si trova letteralmente sull’orlo di una crisi di nervi e che, molto più che della diagnosi, sembra avere un bisogno disperato di una ricetta, anche brutale, che consenta agli operatori e, soprattutto, ai risparmiatori, di ritrovare almeno uno straccio di quella fiducia che è indispensabile per operare con un orizzonte che vada oltre il day by day.
Non è, d’altra parte, un caso se anche la giornata di ieri ha ripetuto, in Asia prima ed in Europa poi, lo stesso copione che è andato in scena lo scorso venerdì, anche se ieri le maggiori perdite hanno riguardato le banche e le altre entità operanti nel mercato finanziario, con perdite alquanto diffuse nei maggiori paesi europei ove, lo ricordo, bisognerà aspettare ancora molte settimane per avere i dati relativi all’ultimo trimestre del 2007 e quelli riferibili all’intero esercizio.
Così come non è un caso che siano stati ieri particolarmente penalizzati i due maggiori gruppi bancari italiani, anche in relazione all’attesa degli esiti delle indagini in corso da parte della vigilanza della Banca d’Italia che, assieme ad altri due gruppi creditizi, li vedono interessati per la ormai nota vicenda dei prodotti derivati graziosamente elargiti ad una pletora di aziende di varia dimensione e ad un numero altrettanto nutrito di enti locali.
Non penso, peraltro, che il clima ancora festivo, accentuato dal fatto che la notizia è stata battuta dall’ANSA nel pomeriggio del sabato, possano essere una valida giustificazione per un buco giornalistico così clamoroso, anche perché, come ho già avuto modo di scrivere a caldo (vedi la puntata di domenica sul mio blog), la tecnica utilizzata sia sul versante sanmarinese che su quello romagnolo è identica a quella utilizzata negli ultimi tre decenni del secolo scorso da banche di ben maggiore importanza che accontentavano la loro migliore clientela aprendole comode e sicure vie per l’espatrio dei capitali di provenienza più o meno lecita, capitali che spesso rientravano come prestiti esterovestiti alle aziende di cui erano titolari gli stessi clienti con costi in termini di interessi che potevano legittimamente essere utilizzati dalle stesse imprese clienti a fini fiscali, aggiungendo così al danno per l’erario anche la beffa.
Ovviamente, per poter operare in questo modo, le banche italiane dovevano avere un’operatività a carattere almeno nazionale, essere dotate di una rete estera che, oltre alle filiali propriamente dette, doveva disporre di una o più banche partecipate e interamente controllata basate in paesi che spesso, negli anni successivi, sono finiti sulla famosa black list redatta dalle agenzie sovranazionali che si occupano del fenomeno del riciclaggio di capitali provenienti dalla malavita organizzata, dal traffico di droga e dall’operatività finanziaria del terrorismo internazionale, oltre che, come si è visto, dagli illeciti movimenti di capitale originati da una parte della clientela bancaria.
Come ho già ricordato, la breve ma intensa esperienza maturata partecipando ai lavori della Commissione antiriciclaggio del CNEL, mi consente, ad esempio, di esprimere un giudizio largamente positivo sulla decisione del Governatore Draghi di riportare nell’alveo della istituzione da lui guidata l’Ufficio Italiano dei Cambi, un’entità che definire burocratizzata equivale a farle un complimento e che, dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, era stata chiamata ad avere un ruolo nel contrasto al riciclaggio internazionale equivalente (sic) a quello svolto negli Stati Uniti d’America dagli uomini e dalle donne che fanno parte del Federal Bureau of Investigations.
Non svelo, peraltro, alcun segreto di ufficio, ricordando di essere stato, assieme agli altri membri della commissione, testimone di uno scontro aperto tra esponenti della Banca d’Italia e dello UIC che era, in effetti, un organismo dalla stessa controllato, uno scontro che aveva ad oggetto i metodi, le finalità, i moduli organizzativi ed i ritardi di un’entità pubblica che non è riuscita ad assolvere ad un compito che rivestiva, e riveste, un’importanza fondamentale per assicurare all’Italia il controllo dei flussi di capitale, il contrasto dei fenomeni malavitosi di ogni ordine e specie e, almeno negli ultimi sei anni, anche una questione fondamentale quale la stessa sicurezza dei cittadini.
Si aprono oggi a Basilea i lavori del G10 finanziario, la riunione cioè dei ministri dell’economia e dei numeri uno dei dieci paesi maggiormente industrializzati, e gli operatori sono in viva attesa, un’attesa che sfiora in alcuni casi l’ansia, per la diagnosi e le terapie che verranno fuori dai lavori di questo consesso, anche perché è ormai a tutti chiaro che la terapia attualmente messa in campo dalle principali banche centrali, in primis da quella BCE che sta inondando i mercati interbancari di liquidità ma non riesce a prendere decisioni sui tassi di interesse, sta producendo dei risultati molto parziali e caratterizzati da poca stabilità sul fronte dei tassi, mentre, come era prevedibile, si stanno trasformando in un boomerang gli altrettanto massicci interventi effettuati sul fronte valutario, basti pensare a quello che sta accadendo sul cruciale cross dollaro/yen che non riesce da giorni a riportarsi al di sopra della soglia di 110 yen per dollaro.
Non credo, d’altra parte, che il professor Mario Draghi, nella sua veste di presidente del Financial Stability Forum, vorrà anticipare parte delle conclusioni del gruppo di lavoro da lui presieduto, anche perché ritengo che si atterrà al programma che vede una sua prima relazione a marzo, in margine ai lavori del G7, un’attesa di due mesi che sarà molto lunga per un mercato che si trova letteralmente sull’orlo di una crisi di nervi e che, molto più che della diagnosi, sembra avere un bisogno disperato di una ricetta, anche brutale, che consenta agli operatori e, soprattutto, ai risparmiatori, di ritrovare almeno uno straccio di quella fiducia che è indispensabile per operare con un orizzonte che vada oltre il day by day.
Non è, d’altra parte, un caso se anche la giornata di ieri ha ripetuto, in Asia prima ed in Europa poi, lo stesso copione che è andato in scena lo scorso venerdì, anche se ieri le maggiori perdite hanno riguardato le banche e le altre entità operanti nel mercato finanziario, con perdite alquanto diffuse nei maggiori paesi europei ove, lo ricordo, bisognerà aspettare ancora molte settimane per avere i dati relativi all’ultimo trimestre del 2007 e quelli riferibili all’intero esercizio.
Così come non è un caso che siano stati ieri particolarmente penalizzati i due maggiori gruppi bancari italiani, anche in relazione all’attesa degli esiti delle indagini in corso da parte della vigilanza della Banca d’Italia che, assieme ad altri due gruppi creditizi, li vedono interessati per la ormai nota vicenda dei prodotti derivati graziosamente elargiti ad una pletora di aziende di varia dimensione e ad un numero altrettanto nutrito di enti locali.
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