giovedì 31 gennaio 2008

Se Bernanke scambia le cause con gli effetti


Del tutto incurante della moltitudine di voci qualificate che chiedono, al fine di ripristinare quella dose minima di fiducia senza la quale la profonda crisi finanziaria in corso non potrà trovare soluzione, Ben Bernanke e la stragrande maggioranza dei suoi colleghi aventi diritto di voto nel Federal Open Market Committee della Federal Reserve (il voto si è risolto in un sonoro 9 a 1) hanno deciso ancora una volta di premiare il cosiddetto moral hazard ascrivibile alla maggior parte della moltitudine di entità che hanno operato, e stanno operando, in un modo che definire spregiudicato è veramente un eufemismo, dando agli stessi un’altra dose di quella droga che è rappresentata da una misura dei tassi di interesse di riferimento che si avvicina ormai ad un livello nullo se non negativo in termini reali.

Ricordo, infatti, che gli ultimi dati sull’inflazione statunitense indicano che, nell'ultimo trimestre del 2007, il CPI non depurato (e perché poi lo si dovrebbe fare, come si è autorevolmente chiesto di recente uno dei tanti premi Nobel per l’economia che vive ed insegna negli USA?) è balzato al 2,7 per cento, ma anche quello cosiddetto ex food and energy si colloca ormai al 2,6 per cento, elementi giudicati dal tutto ininfluenti dai decision maker della Fed, che, nel volgere di soli otto giorni, hanno operato un taglio del tasso sui Fed Funds di 125 punti base, portandolo dal 5,25 per cento di appena cinque mesi orsono al 3 per cento attuale, mentre una variazione di analoga dimensione ha riguardato, sempre nei cinque mesi trascorsi, il tasso ufficiale di sconto, oggi al 3,50 per cento, un tasso che, è bene ricordarlo, fa riferimento ad un tipo di operazione che era ormai scomparsa, sino al 9 agosto scorso, dalle tecnicalità utilizzate dalle banche statunitensi.

A chi segue attentamente il decorso della tempesta perfetta, non è sfuggito che uno dei motivi alla base del fallimento di quel SIV dei SIV tanto caro al ministro del Tesoro e sino a due anni orsono numero uno incontrastato di Goldman Sachs, Henry Paulson, quel MLEC imposto a forza alle recalcitranti banche USA, è dato proprio dal fatto che, grazie all’allargamento delle maglie quantitative e qualitative relative allo sconto presso la Fed, svariate decine di miliardi di dollari di titoli della finanza strutturata sono diventati appannaggio pressoché permanente della Fed che, grazie ai rating irrealistici attribuiti a questa vera e propria montagna di spazzatura, ha tolto roventi castagne dal fuoco dai bilanci e dalle poste off balance sheet delle principali banche made in USA.

Come capita di fronte a difficili scelte politiche, scelte che impongono spesso di turarsi il naso in vista di un fine superiore, comprendo perfettamente le ragioni che sono alla base di quel "sono disposto a tutto" pur di impedire il crack del sistema pubblicamente rivendicato dall’oscuro professore di economia che si è trovato nella scomoda posizione di numero uno della Fed quando tutto andava ancora bene e si era alquanto inconsapevolmente seduti su svariate e gigantesche bolle speculative che hanno avuto il torto di scoppiare in modo pressoché contemporaneo, ma quello che veramente trovo inaccettabile e che non si espliciti il fatto che l’obiettivo principale è quello di favorire, spesso a spese ed a danno dei cittadini e dei contribuenti statunitensi, un bailout di dimensioni gigantesche di un sistema finanziario che, come sostiene Nicolas Sarkozy, uno che di queste cose se ne intende, è letteralmente impazzito, travolto dagli animal spirits dei suoi protagonisti, a loro volta travolti da un mix di avidità, paura ed incompetenza come non si era visto dai tempi non certo invidiabili della Grande Depressione.

Ma il vero motivo alla base della mia critica nei confronti dell’operato della Fed di Bernanke, così come di una buona parte dell’esperienza di Greenspan prima di lui, è data dal fatto che non solo ci si pone sistematicamente dietro la curva dei rendimenti, ma che vi è, almeno a giudicare da come si opera sugli effetti, una totale assenza di analisi delle vere cause della tempesta perfetta, cause che hanno a che fare con i comportamenti degli attori del mercato finanziario, del modello di finanziamento dei consumi e degli investimenti e in quel modello originate to distribuite così caro alle banche globali, a prescindere dal paese in cui sono basate, nonché a quel legame perverso tra risultati di breve se non di brevissimo periodo e le remunerazioni dei top manager, argomento questo ultimo sul quale, seppure con un ritardo pluridecennale, ha finalmente deciso, come titolano i giornali, di accendere un opportuno faro la statunitense Securities and Exchange Commission.

D’altra parte non è un caso se le indagini ormai molto avanzate del Federal Bureau of Investigations sui comportamenti dei principali protagonisti del mercato creditizio, con particolare riferimento al disastrato settore del mortgage, stanno incentrandosi sulle 14 principali entità operanti nel settore, avendo, a solo titolo di esempio, ad oggetto mostri sacri come Goldman Sachs e Morgan Stanley, indagini, lo ricordo di passata, che non sono solo foriere di eventuali danni sul piano reputazionale, ma che potrebbero avere anche conseguenze economiche, penali ed amministrative pesantissime per le banche o le finanziarie che dovessero essere ritenute colpevoli di reati tutt’altro che lievi, ma che divengono ancora più pesanti ove a commetterli sono aziende che basano parte delle loro speranze di sopravvivenza sulla fiducia dei risparmiatori e degli investitori di tutto il mondo.

Non sottovaluteri, fossi al posto dei vertici dei colossi della finanza globale basati od operanti negli Stati Uniti d’America, il surriscaldamento del clima politico derivante dalla più appassionante corsa per la nomination alla candidatura per le elezioni USA degli ultimi decenni, ma, in particolare, non prenderei alla leggera le tesi di Mc Cain per i repubblicani e di entrambi i candidati ancora in corsa per i democratici sul legame perverso esistito e tuttora esistente tra l’amministrazione Bush ed il potere economico in generale e quello di banche e compagnie di assicurazione in particolare, così come non sottovaluterei le terapie che si impegnano ad adpttare per spezzare questo intreccio che, pur con accenti diversi, questi tre candidati stanno ripetendo, quasi fosse un mantra ipnotico, in tutti i loro innumerevoli comizi.

Lasciando per un attimo il suolo statunitense, ritengo necessario soffermarmi sulle prospettive della Société Générale, il cui consiglio di amministrazione ieri, pur confermando la fiducia all’attuale numero uno Daniel Bouton, gratificato peraltro dall'affetto di centinaia di suoi collaboratori, ha, tuttavia, affidato ad un comitato composto da tre tra i suoi più prestigiosi consiglieri indipendenti il potere decisionale sulle eventuali proposte che perverranno dall’esterno per l’eventuale acquisizione della banca, un’acquisizione che, se prevarrà l’orientamento del governo francese, verrà effettuata da una o più banche francesi, anche se già arrivano da Bruxelles gli strepiti e gli alti lai contro la posizione di Sarkozy e dei suoi ministri, una posizione giudicata troppo protezionistica.

Nel frattempo le banche italiane, continuano ad essere, o a sembrare, alquanto al riparo dai marosi della tempesta perfetta, anche se gli sviluppi giudiziari relativi agli scandali occorsi negli anni passati e le ispezioni in corso da parte della Vigilanza della Banca d’Italia sulle vicende più recenti e sulla governance di alcune importanti banche popolari non consentono sonni del tutto tranquilli ad un buon numero di banchieri nostrani.

Il pusher Bernanke ed il barricadero Bouton


Come era stato largamente previsto dalla stragrande maggioranza degli analisti e degli operatori del grande mercato finanziario globale, è giunto in serata l’annuncio della decisione del Federal Open Market Committee della Federal Reserve che ha tagliato di un altro mezzo punto il tasso sui Fed Funds che aveva già tagliato di ben tre quarti di punto nei primi giorni della scorsa settimana, dopo una inusuale e non prevista riunione in teleconferenza svoltasi mentre si liquefacevano gli indici azionari in tutto il mondo, anche, almeno secondo i più maliziosi, a causa della improvvida decisione dei vertici di Société Générale di liquidare in fretta e furia le posizioni per 50 miliardi di euro ufficialmente non autorizzate messe in piedi dal suo trader Jerome Krevial.

Con il taglio di ieri, quindi, Bernanke e compagni, con una maggioranza di 9 a 1, hanno portato il tasso sui Fed Funds dal 4,25 per cento dell’inizio della settimana scorsa al 3 per cento, una flessione complessiva di 125 base in una settimana, un taglio che non si era visto neanche ai tempi del Maestro Greenspan che, pure, era riuscito, con molta maggiore gradualità, a portare il tasso sui Fed Funds sino all’1 per cento e a tenervelo per la bellezza di due anni, così come è utile ricordare che Bernanke ha ereditato il tasso cui fanno riferimento quasi tutte le operazioni indicizzate al 5,25 per cento, livello cui era letteralmente inchiodato da un biennio.

Venendo incontro alle pressanti richieste avanzate dalle banche e dalle finanziarie statunitensi, Bernanke e compagni hanno anche deciso di tagliare il tasso ufficiale di sconto dal 4 al 3,50 per cento, rendendo ancora meno oneroso il trasferimento dei titoli della finanza strutturata che le banche stanno dando in garanzia dei finanziamenti ricevuti dalla Federal Riserve.

La prima reazione dei tre principali indici azionari statunitensi, che boccheggiavano alquanto sino ad alcuni minuti prima, è stata ovviamente improntata ad un rialzo che, tuttavia, non è stato entusiasmante, anche perché gli operatori non si erano ancora ripresi dall’hard landing evidenziato dai dati preliminari sulla crescita, si fa per dire, nel quarto trimestre del 2007 che è passata dal 4,9 per cento annualizzato del terzo trimestre ad un quasi invisibile 0,6 per cento nell’ultima frazione dell’anno, il che significa che la variazione effettiva è stata di appena lo 0,15 per cento (questo peraltro significa che il tasso è annualizzato e non misura, quindi, la variazione secca tra un trimestre e quello precedente, ma moltiplica la stessa per quattro, indicando la velocità della crescita annuale proiettata in base ai dati del trimestre).

Il mercato era anche in attesa di maggiori dettagli sul financial bailout tutto francese che dovrebbe riguardare Socgen, la seconda banca transalpina, quella sull’operato della quale sono in corso indagini degli inquirenti francesi specializzati in reati finanziari e l’entità di soveglianza dei mercati azionari, anche se in mattinata gli operatori sono stati gelati in Europa dai disastrosi risultati del colosso extracomunitario UBS, che è riuscito, grazie alla maxiperdita del quarto trimestre e i non proprio brillanti risultati registrati nel terzo, a portare in rosso il bilancio dell’intero esercizio 2007 per 2,7 miliardi euro.

Che le cose non stessero andando bene, peraltro, lo aveva già annunciato un chiaro profit warning del colosso finanziario svizzero, semmai il problema è rappresentato dalle prospettive future di questa come degli altri big player del mercato finanziario globale che hanno già raggiunto la prima stima di perdite fatte a caldo dal Fondo Monetario Internazionale e che potrebbero confermare in un futuro non troppo remoto le stime ben più pessimistiche che sono state diffuse successivamente da autorevoli osservatori e centri di previsione a carattere sopranazionale, con il temuto corollario di un credit crunch di dimensioni di gran lunga superiore alle perdite sopportate dalle banche.

Ma quello che era difficile prevedere alla luce delle posizioni chiaramente espresse dal presidente Sarkozy e dai suoi ministri finanziari, così come dalle implicazioni delle indagini a vario livello in corso a Parigi, è rappresentato dalla conferma all’unanimità da parte del consiglio di amministrazione di Socgen di un Daniel Bouton, attuale presidente ed amministratore delegato della banca, che, invece di cospargersi doverosamente il capo di cenere per l’evidente responsabilità oggettiva per quanto accaduto, se non altro per essere il legale rappresentante di Socgen, è partito lancia in resta contro qualsiasi ipotesi di OPA amichevole, quali sarebbero quelle di cui discute la stampa francese e mondiale e alle quali sta fornendo attivamente e pubblicamente un contributo la politica ad i suoi massimi livelli e , con ogni probabilità, la Banca di Francia in modo certamente più discreto, ma non per questo meno efficace.

Se non bastasse il calo di fiducia nei confronti della banca derivante dai fatti ormai ultra noti, nonché le vagonate di pagine di giornali e servizi televisivi dedicate al comportamento del trader briccone ed alle lacune dei controlli interni, le denuncie di numerosi azionisti, e di recente anche dei soci dipendenti, per sospetti di insider trading ascritti, a torto o a ragione, a membri del consiglio di amministrazione, sarebbe utile per il numero uno di Socgen riflettere sul fatto che si è appena svolto a Londra, dopo il vertice riservato a Davos dei principali governatori delle banche centrali di numerosi paesi europei, un vertice del capo si stato francese e dei primi ministri di Germania, Gran Bretagna ed Italia per discutere delle urgenti misure da adottare per ridare trasparenza all’operato dei principali attori di quel mercato finanziario globale che gode certamente del livello minimo di fiducia da parte dei risparmiatori dal secondo dopoguerra.

Le vicende della banca francese e la gravissima crisi finanziaria in corso hanno, peraltro, determinato una tale urgenza dell’incontro dei leader dei quattro principali paesi europei da determinare un vero e proprio incidente diplomatico determinato dall’esclusione del primo ministro di quella Spagna che, giustamente, ha espresso tutto il suo disappunto per essere stata esclusa dall’incontro, subendo un umiliazione che non favorisce di certo Zapatero, attualmente impegnato in una difficile campagna elettorale.

Il mercato, ovviamente, non crede alle barricate erette da Bouton e dai suoi colleghi e l’azione sta continuando a recuperare, segno evidente che sono in molti a credere che, alla fine, la banca verrà acquisita dall’uno o dall’altro dei suoi pretendenti.

Quella odierna è la puntata numero 100 del diario della crisi finanziaria e devo dire che non credevo, almeno all’inizio, che questa avventura sarebbe giunta a questo punto, temo, peraltro, non conclusivo, e ne approfitto per ringraziare i miei pochi lettori della loro costanza.

mercoledì 30 gennaio 2008

I quattro maggiori paesi europei chiedono più trasparenza e più regole per i mercati finanziari


Mentre i mercati finanziari di tutto il mondo restano in trepidante attesa per l’annuncio delle decisioni del Federal Open Market Committee della Federal Reserve previsto per stasera, anche se ormai Bernanke ci ha abituati alle sorprese anche rispetto al timing, e per i necessari, maggiori dettagli sul financial bailout tutto francese che dovrebbe riguardare la seconda banca transalpina, quella Société Générale sull’operato della quale sono in corso indagini degli inquirenti francesi specializzati in reati finanziari e l’entità di soveglianzxa dei mercati azionari, l’attenzione del mondo si sposta ancora una volta sull’Europa, questa volta per i non proprio brillanti risultati annunciati dall’extracomunitaria UBS.

Il colosso creditizio svizzero ha, infatti reso noto che le cose sono andate malissimo nel quarto trimestre, con una perdita di 7,75 miliardi di euro che esprimono, ai cambi attuali, un rosso per 12,5 miliardi di franchi svizzeri, un risultato sul quale hanno pesato le rilevantissime svalutazioni legate al mark to market dei titoli della finanza strutturata e che ha non solo annullato i dati positivi del primo semestre del 2007, ma che, insieme a quelli del terzo trimestre, hanno determinato una perdita per l’intero esercizio pari alla non trascurabile somma di 2,73 miliardi di euro.

La preoccupazione, però, non è tanto per l’indiscussa solidità della banca elvetica, quanto per il continuo aggiustamento verso l’alto del conto provvisorio delle perdite delle banche statunitensi e per quelle di tutto il mondo legato alla crisi finanziaria, in particolar modo a quella montagna di titoli della finanza strutturata che restano sui conti diretti e su quelli indiretti delle banche per il semplice motivo che sembra non esserci più nessuno interessato ad acquisirli, un conto che ha già superato di slancio la soglia dei 100 miliardi di dollari, ma che è ben lungi dall’essere in vista di quella forchetta di previsioni sul saldo finale che va da un minimo di 3-4 volte ad un massimo di anche 10 volte il dato appena ricordato.

A costo di essere monotono, ricordo ancora una volta che, sulla base dei calcoli elaborati nei mesi scorsi da Jan Hatzius, stimato capo economista di Goldman Sachs, l’impatto in termini di credit crunch delle perdite contabilizzate dalle banche dovrebbe essere non inferiore ad un rapporto che vede il taglio dei finanziamenti all’economia porsi ad un livello di almeno 10 volte superiore alle perdite subite, una prospettiva che, anche se ci si fermasse, cosa del tutto poco credibile, a 200 miliardi di perdite complessive, vedrebbe un taglio degli impieghi a livello globale pari a 2 mila miliardi di dollari, ma che rischia di spingersi fino all’esorbitante cifra di 10 mila miliardi.

Pur in presenza di cifre come quelle sopra evidenziate che rappresentano, anche nell’ipotesi minima, la più feroce stretta di quella che il compianto Guido Carli, persona che, da Governatore della Banca d’Italia, si era più volte esercitato in questa pratica così poco amata dagli imprenditori, chiamava la corda del boia, escono stime come quelle elaborate dallo stuolo di economisti del Fondo Monetario Internazionale, ma Strauss Khan non ci aveva assicurato che avrebbe provveduto ad un salutare repulisti?, che prevedono, per il 2008 una frazionale e modestissima revisione al ribasso della crescita mondiale, dal +4,4 per cento inizialmente previsto a +4,1 per cento attuale, anche se va detto per onestà intellettuale che lo scarto dello 0,3 per cento tra le due stime determina una contrazione dello 0,8 per cento rispetto alla crescita realizzata nel 2007 e che una frenata di quasi un punto percentuale della crescita del PIL mondiale è pur sempre di un’entità tale da far tremare i polsi.

Non sono in grado di dire se questo taglio, a mio avviso molto ottimistico, delle stime del FMI ha avuto un peso nel vertice londinese svoltosi a Londra tra il capo dello stato francese, Nicholas Sarkozy, e i capi di governo di Germania, Gran Bretagna ed Italia, con l’esclusione e relative vivaci polemiche della Spagna, o se, come ritengo più probabile, l’agenda è stata incentrata sulla crisi dei mercati finanziari e sullo scottante caso di Socgen, fatto sta che dai laconici comunicati si percepisce che è prevalsa la linea dura del presidente francese, che aveva chiaramente detto che è necessaria una maggiore trasparenza, ma anche che per ottenere la stessa non bisogna risparmiare gli sforzi volti all’individuazione delle necessarie regole da imporre e non concordare con i principali e variegati attori del mercato finanziario e che tali regole devono avere il massimo tasso di globalità possibile, anche al fine di evitare la creazione di nuovi paradisi operativi.

Solo stasera vedremo se l’impatto della notizia che l’FBI sta entrando nel vivo delle indagini volte ad incriminare anche formalmente 14 entità creditizie operanti nel settore dei mutui statunitensi surclasserà la quasi scontata decisione di Bernanke e soci, anche se l’ipotesi formulata dagli investigatori è quella non proprio lieve di aver perpretato una vera e propria frode, accusa che ove dimostrata porterebbe dritto dritto alla revoca della licenza ad operare nel settore creditizio, mentre penso che minore credibilità rivesta l’indagine della Sec sulle retribuzioni megagalattiche dei manager statunitensi, che temo si risolverà nella solita bolla di sapone.

Poiché è proprio vero che tutto il mondo è paese, segnalo l’impennata registrata ieri ed oggi dalle quotazioni di Banca Italease, l’istituto specializzato nel leasing ed universalmente considerato un po’ decotto che ha come azionisti di riferimento il Banco Popolare e un pool di altri istituti di credito, impennata realizzata sull’onda delle voci, confermate, di una manifestazione di interesse da parte della tedesca DZ Bank, mentre apprendiamo che uno dei protagonisti della relativa vicenda, quel Claudio Calza che avrebbe fatto la parte del leone nell’ingente flusso commissionale generosamente elargito dall’ex amministratore delegato di Italease, Massimo Faenza, è stato dimissionato dalla presidenza di ABF Leasing, entità specializzata facente capo al gruppo Banca Popolare dell’Emilia Romagna.

Sempre dall’Italia, si apprende che Intesa-San Paolo ha finalmente rotto gli indugi e si appresterebbe, dopo essersi portata al 59 per cento circa del capitale della sua preda fiorentina, a lanciare un’OPA sul 49 per cento di Carifirenze ancora in mano ad azionisti diversi dalla relativa Fondazione ed ha anche individuato nel manager del gruppo, Luciano Nebbia, l’uomo dell’integrazione ed anche futuro direttore generale della ricca cassa fiorentina, a sua volta futuro fulcro delle restanti casse operanti nelle regioni del centro Italia.

Un chevalier bleu, blanc et rouge pour Socgen?


Come era largamente prevedibile, lo smacco, prima ancora della perdita, subita da Société Générale, trovatasi in un imprecisato giorno di gennaio dell’anno di grazia 2008 alle prese con contratti derivati non autorizzati per un valore complessivo di 50 miliardi di euro, poco meno della sua capitalizzazione di borsa a quello stesso momento, avrebbe portato al più rilevante financial bailout in terra europea, nell’ambito peraltro della più grave, prolungata e profonda crisi finanziaria mai verificatasi dal secondo dopoguerra, una crisi che ha visto la luce il 9 agosto del 2007 proprio a partire da una crisi di reciproca sfiducia tra le banche operanti nel mercato interbancario dell’area dell’euro e che fu temporaneamente disinnescata dall’intervento di un oscuro dirigente italiano della BCE che ebbe appena il tempo di informare della sua decisione i membri del board, tutti in quel momento impegnati a godersi le meritate vacanze estive.

Il presidente della repubblica francese, il più che decisionista Nicolas Sarkozy, la ministra dell’economia, Christine Lagarde, ed altri autorevoli membri dell’esecutivo francese hanno giocato, e stanno giocando in queste ore, un ruolo tutt’altro che secondario nel sostanziale esautoramento dell’ancora per poco presidente di Socgen e del suo traballante consiglio di amministrazione, rei ai loro occhi di alto tradimento per non aver informato tempestivamente il governo, ma solo, e forse con qualche ritardo, la Banca di Francia di quanto stava accadendo, così come un ruolo non secondario gli stessi stanno giocando nel definire quale sarà la soluzione per uscire da una situazione che, ripeto, è più dannosa sul piano dell’immagine di Socgen e della Francia che su quello, pur importante, dei conti aziendali della seconda banca francese.

Non è sfuggita a nessuno la dura presa di posizione ufficiale contro l’eventualità di scalate straniere ed ostili, ma soprattutto l’accento sembrava posto su straniere, volte ad acquisire il controllo, peraltro a prezzi di saldo, di Socgen, così come non è passata inosservata l’indiscrezione del Wall Street Journal, quell’autorevolissimo quotidiano finanziario statunitense che, almeno in questa tempesta perfetta, non ha davvero sbagliato un colpo, sullo studio del dossier da parte di una importante banca francese del dossier relativo alla banca altrettanto francese attualmente coinvolta nella tempesta.

Così come non è un mistero per nessuno che, a poche settimane dal primo turno delle elezioni presidenziali francesi, sembrava giunto a buon punto il progetto di un merger tra BNP Paribas e Socgen, un’operazione non meglio definita nei contorni operativi e, in particolare, sotto il tutt’altro che secondario profilo delle questioni di governance, ma che, ed anche questo è largamente noto, venne bloccata per l’inopportunità del momento scelto e per le barricate erette da Bouton e compagni che vedevano, a torto o a ragione, la loro banca fare la parte dell’acquisita e si legarono, metaforicamente parlando, alle loro dorate poltrone.

D’altra parte, le ultime dichiarazione del bricconcello Kerviel, che restano sempre le dichiarazioni di un imputato, non agevolano la posizione dei suoi diretti superiori da lui apertamente chiamati in causa, né tanto meno quella del presidente Daniel Bouton e dei consiglieri di amministrazione sospettati di insider trading in base alla denuncia presentata da un centinaio di piccoli azionisti della banca, una denuncia che è uno degli elementi alla base dell’indagine parallela promossa dall’organismo francese deputato alla vigilanza sulla correttezza dei comportamenti di coloro che operano nel mercato azionario del paese transalpino.

Ad accrescere i sospetti sul fatto che sarà proprio questo l’esito finale dell’affaire Socgen, è infine giunto il no comment della potenziale banca acquirente, un commento che quegli smaliziati dei giornalisti economici, anche quelli embedded, hanno il vizio di non prendere mai alla lettera, considerandolo, addirittura, come una sorta di conferma.

Come ho ripetuto più volte in questi mesi, una delle conseguenze principali della tempesta perfetta è data dall’accelerazione di quel processo di concentrazione nel settore bancario che è peraltro in corso da qualche decennio, un processo che sta andando alla grande in terra statunitense, ma che rischia di portare alla nascita di un numero ristretto di campioni nazionali nei paesi dell’area dell’euro, dopo aver fatto passi da gigante negli anni passati in Gran Bretagna.

Se questo è vero in generale, non si può dimenticare che pochi paesi europei, come la Francia, hanno una sorta di fissazione nella creazione di campioni nazionali in tutti i settori strategici, quali la difesa, la ricerca aerospaziale, la grande distribuzione e, in ultimo ma non per ultimo, banche ed assicurazioni, così come è a tutti nota l’idiosincrasia di Sarkozy per quelle locuste dei private equity e per quegli approfittatori di crisi altrui che sono rappresentati dai fondi di investimento governativi arabi ed orientali, ma sarebbe meglio dire dei fondi di investimento facenti capo ai governi stranieri in generale.

D’altra parte, anche negli USA vi è una spasmodica attesa per importanti financial bailout che, dopo le superstiti entità operanti nel sempre più malandato settore del mortgage (i dati recenti sulle vendite delle case nuove ed esistenti, così come quelli sugli espropri sono davvero terrificanti), dovrebbe, il condizionale in questo caso è davvero d’obbligo, riguardare le due principali compagnie di assicurazione monoline, MBIA ed Ambac, anche se non è dato di vedere chi avrà le spalle sufficientemente forti per accollarsi queste due entità dalle prospettive così negative.

Nel frattempo, sulle note dell’orchestra del celebre transatlantico in procinto di affondare dopo aver urtato un iceberg, i mercati azionari worldwide si sono presi una giornata di pausa rispetto alla pulsione ribassista, anche perché è diffusa la convinzione che, dalla riunione di oggi e domani del Fomc della Federal Reserve, spunterà il pusher Bernanke con la solita dose di taglio dei tassi sui Fed Funds, ma le banche puntano anche ad un deciso taglio del tasso ufficiale di sconto, una decisione che, per quanto incomprensibile alla luce del recentissimo taglio di ben 75 punti base deciso in teleconferenza, convincerebbe anche i più scettici tra gli analisti che, in quanto a stare dietro la curva dei tassi, Bernanke e compagni non sono secondi a nessuno, nemmeno al Maestro e predecessore Alan Greenspan.

martedì 29 gennaio 2008

Sotto accusa i membri del CdA di Socgen


Che si consideri la maxi perdita di Socgen, seconda banca francese e uno dei leader del risparmio gestito e della finanza europea, un effetto della crisi finanziaria in corso o una delle cause dei crolli delle borse dell’inizio della settimana scorsa o addirittura causa o concausa dell’anomala mossa della Federal Reserve, non si può non essere d’accordo con il presidente francese Nicolas Sarkozy quando sostiene che un evento del genere non può rimanere senza conseguenze.

Le cronache finanziarie di oggi, d’altra parte, ci dicono che il persistente clima ribassista ha mietuto di nuovo le sue vittime, con i veri e propri crolli registrati questa mattina in Asia, uno per tutti il calo dell’indice Hang Seng di Hong Kong che ha perso qualcosa come il 7 per cento e spiccioli, le sofferenze dei mercati europei, mitigate solo nel finale dalla nuova altalena cui da molte sedute ci ha abituato Wall Street (di nuovo in attesa dell’ennesimo taglio dei tassi da parte della Fed nella riunione ordinaria di mercoledì, dopo il maxi taglio deciso in una teleconferenza un po' panicata), la solita flessione di Socgen, stavolta appena di poco inferiore al 4 per cento, con perdite rispetto ai massimi delle ultime 52 settimane che superano ormai largamente il 50 per cento e si avvicinano pericolosamente al 60 per cento, livelli di perdita non usuali per i maggiori e alquanto ermetici players creditizi basati nei principali paesi di quella che alcuni chiamano sprezzantemente Vecchia Europa.

Ripeto per l’ennesima volta che, almeno nella tempesta perfetta, non vale la nota affermazione di mao Tse Tung, secondo la quale "la confusione è grande sotto il cielo, la situazione è eccellente", anche perché le cronache giudiziarie del caso Socgen ci dicono che, almeno secondo l’indagato Kerviel che da oggi è a piede libero, le sue pratiche allegre non erano del tutto fuori contesto, in quanto nella sua stessa sala operativa, seppure a livelli inferiori rispetto alle sue ormai note performance, albergava un clima da così fan tutti, con tanti altri operatori che mascheravano le loro non proprio definibili prodezze.

Nel formalizzare le imputazioni a suo carico, peraltro, gli inquirenti hanno ritenuto di non prevedere quel reato di frode a gran voce invocato dai vertici della banca francese (i giudici parigini specializzati in reati finanziari ipotizzano, infatti, per il giovane trader i reati di falso e manipolazione informatica), mentre i suoi legali continuano a sostenere che la vera causa delle perdite è stata la decisione della banca di liquidare in fretta e furia le posizioni aperte da Kervial, scelta, sempre a loro avviso, largamente opinabile e foriera di larga parte delle perdite lamentate dall'ormai certo uscente Daniel Bouton e dai suoi altrettanto pencolanti compagni.

Lo stesso Bouton e i suoi colleghi del consiglio di amministrazione di Socgen, inoltre, hanno avuto oggi l’amara sorpresa di finire sotto accusa per aggiotaggio e insider trading in base ad una denuncia molto circostanziata presentata, per conto di un centinaio di piccoli azionisti della banca francese, da parte di un nutrito stuolo di agguerriti legali che, tanto per far capire che non era loro intenzione buttare tutto in caciara, hanno reso noto che uno dei consiglieri denunciati, tal Robert Day, avrebbe venduto azioni della banca per un controvalore di 87,5 milioni di euro il 9 gennaio, giorno in cui le quotazioni erano molto più elevate di quanto fossero nelle prime sedute della settimana scorsa, per non parlare di quelle di oggi, e, soprattutto, lasciando intendere che la notizia del problema va retrodatata di almeno una decina di giorni rispetto alla ricostruzione ufficiale.

Risparmierò ai miei pochi lettori la prevedibile tirata sull’avidità imperante tra top manager e amministratori delle variegate entità attive nel mercato finanziario globale, anche perché se hai conosciuto, a solo titolo di esempio, Angelo Mozilo di Countrywide non puoi più meravigliarti di nulla, tuttavia non credo sia fuori di luogo affermare che nella crisi finanziaria del 1907, quella che resta ancora paradigmaticamente la tempesta perfetta, ben altri erano i comportamenti degli antenati dei predecessori dei nostri non proprio disinteressati finanzieri e banchieri operanti, è proprio il caso di dirlo, all over the world.

Ci si aspetterebbe che nel conclave riservato ai soli banchieri centrali con l’aggiunta di qualche autorevole e ben selezionato invitato, riunione svoltasi a porte chiuse a Davos ai margini del prestigioso appuntamento annuale del World Economic Forum (o è quest’ultimo che si è svolto ai margini del discreto e riservatissimo conclave?), i partecipanti, tra cui il nostro Mario Draghi, nella sua doppia veste di Governatore della Banca di Italia e di presidente pro tempore del Financial Stability Forum, abbiano deciso di seguire la prescrizione urlata dall’irato Sarkozy, studiando a spron battuto nuove e più stringenti regole per combattere l’impazzimento del mercato, a sua volta frutto della assenza o della lacunosità delle regole.

Credo di non essere facile profeta nel dire che si tratterebbe di un’attesa del tutto vana, in quanto i governatori delle banche centrali, come, peraltro, i governanti, godono in realtà di margini decisionali molto ristretti e di ancor meno capacità di incidere su quella sorta di maionese impazzita che è diventatata, in particolare da qualche decennio, il mercato finanziario globale.

Così come ritengo che, seppure con un certo ritardo su quel 1998 in cui fu formulata e a cui esplicitamente si riferiva, stia proprio per avverarsi la profezia di George Soros sulla crisi pressoché irreversibile del capitalismo finanziario, anche perché ritengo che l’errore temporale di Soros sia più da scrivere ai comportamenti non del tutto ortodossi o corretti di Greenspan e dei suoi omologhi europei e giapponesi che all’appannamento delle capacità previsive di quello che un tempo era approdato da povero profugo negli Stati Uniti d’America e che è universalmente considerato uno dei pochi che conoscono a fondo i meccanismi della finanza, oltre ad essere certamente la persona che più si impegnata concretamente per la dissoluzione dell'URSS e che si sta attivamente impegnando perchè in Russia e nelle Repubbliche indipendenti si instauri una vera democrazia e non delle dittature più o meno mascherate.

Fornisco solo di sfuggita la notizia che i dati diffusi oggi sulle vendite di nuove case negli Usa in dicembre e quelle relative all’intero anno confermano, oltre ogni previsione, che la crisi del mercato immobiliare statunitense trova precedenti soltanto ritornando ai disastrosi dati relativi al 1991, così come, altrettanto di sfuggita, ricordo che oggi, in attesa della prossima dose che il pusher Bernanke non farà certo mancare ai suoi affezionati clienti, wall Street ha recuperato quasi tutte le perdite di venerdì scorso.

lunedì 28 gennaio 2008

Nicolas, bruciato da Socgen, pretende una radicale riforma del mercato finanziario!


Mentre infuriano, in Francia e nel resto del mondo, le polemiche sulla reale natura, le dimensioni e le conseguenze della gigantesca frode subita dalla seconda banca francese per volumi e capitalizzazione, quella Société Générale fondata con decreto di Napoleone III nel 1864, ad opera di un trader trentunenne non dotato di ampie deleghe operative, nel rovente dibattito entra a piedi pari un furente Nicholas Sarkozy che, ancora indignato con i vertici di Socgen e con il Governatore della Banca di Francia per essere stato informato dello scandalo solo quattro giorni dopo, ha alzato il tono della polemica andando con durezza a quello che è il vero cuore del problema.

“Se è possibile fare grandi profitti nel volgere di poche ore, è anche possibile realizzare enormi perdite” ha sostenuto il presidente francese dall’India dove è in visita ufficiale, aggiungendo che “dobbiamo fermare questo sistema che è impazzito e che ha perso di vista il proprio scopo”, per chiosare che “è ormai giunto il tempo per iniettare un po’ di senso comune in tutti questi sistemi”.

Ancora non ben ripresasi dallo shock, la ministra francese dell’economia, Christine Lagarde, nel suo intervento a Davos, liquida lo scandalo rendendo soltanto noto di essere stata incaricata di redigere un rapporto sulla frode e non trova di meglio da fare che prendersela con il suo connazionale Jean Claude Trichet, il presidente della BCE da tempo considerato germanizzato se non addirittura passato armi e bagagli sulle posizioni della parte templare del Board dell’istituto di Francoforte, un Trichet reo di non adoperarsi abbastanza per realizzare una politica monetaria più accomodante nell’area dell’euro e sordo alle chiare necessità del mercato ormai sempre più immerso nella crisi finanziaria.

Nel frattempo, il giovane Jerome Krevial è stato arrestato sabato scorso dalla polizia e, secondo fonti giudiziarie, starebbe attivamente collaborando con gli inquirenti, mentre i suoi legali passano decisamente al contrattacco, contestando decisamente la versione della banca sulla vera responsabilità delle perdite che sarebbero, a loro avviso, da addebitare alla fretta con la quale Socgen ha liquidato massivamente le posizioni aperte, senza tentare di gestirle in un lasso di tempo più lungo, una posizione, peraltro, che fornisce munizioni a quanti stanno sostenendo che la chiusura pressoché simultanea di derivati sugli indici azionari per 50 miliardi di euro avrebbe determinato non solo i crolli delle prime due sedute della scorsa settimana, ma avrebbe anche influenzato Bernanke e compagni che, presi dal panico, hanno deciso proprio in quelle ore e in teleconferenza il maxi taglio di 75 punti base del tasso sui Fed Funds a pochissimi giorni dalla data prevista per la riunione formale del FOMC della Federal Reserve.

I principali commentatori economici e buona parte dei cervelli presenti al World Economic Forum di Davos danno ormai per certo un financial bailout in favore di Socgen, più per il colpo subito dalla sua credibilità che per lo stesso pur grave impatto economico negativo della frode e dei possibili strascichi legali della stessa, così come tra loro prevale la possibilità che si vada verso quel merger tutto francese di cui si era tanto parlato nei mesi scorsi e che ora vedrebbe Bouton e compagni soccombere alla superiore volontà dell’iperattivo presidente francese e dei ministri economici del suo gabinetto, del tutto ansiosi di voltare pagina e di creare un campione nazionale creditizio non meno forte degli campioni nazionali realizzati in altri settori strategici dell’economia francese.

Lo scandalo Socgen ha letteralmente offuscato le altre notizie provenienti dal sempre più turbolento mercato finanziario globale, ma è il caso di ricordare che, a fronte di un ancora non deciso intervento delle maggiori banche statunitensi in favore delle disastrate compagnie assicurazioni monoline per un massimo di 15 miliardi di dollari, le necessità delle principali sei entità operanti nel comparto, due già degradate e le altre in procinto di esserlo, richiederebbero un afflusso di capitali che va dagli 80 ai 200 miliardi di dollari a seconda della visione più o meno pessimistica degli analisti stessi.

Così come non vanno trascurate le notizie che vedono anche la potente e preveggente Goldman Sachs intraprendere con la sua abituale determinazione la strada del downsizing, che dovrebbe tradursi in un taglio dell’organico che stride un po’ con i risultati record registrati pur in un 2007 disastroso per l’industria finanziaria nel suo complesso, ma che è molto in linea con l’altrettanto forte determinazione di creare le condizioni per realizzarne di altrettanto buoni anche per quello che si profila già come un orrendo 2008, un anno per il quale la famosa vulgata dell’anno bisesto anno funesto sembra, almeno alla luce del futuro prevedibile, quasi come un augurio.

sabato 26 gennaio 2008

Daniel Bouton, un naufrago nella tempesta

L’annuncio ufficiale diffuso nella prima mattinata di giovedì scorso dalla seconda banca francese per volumi e capitalizazione, quella Société Générale fondata con decreto di Napoleone III nel 1864, riguardante una frode gigantesca subita dalla stessa banca ad opera di un trader trentunenne non dotato di ampie deleghe operative ha fatto compiere all’attuale crisi finanziaria un vero e proprio salto di qualità e favorisce la posizione, attualmente minoritaria, di quanti sostengono da tempo che dalla tempesta perfetta non si esce senza l’individuazione di nuove regole in materia di controlli esterni ed interni, di trasparenza e senza un riorientamento del mercato finanziario in favore di un modo di operare che non sia più basato sul trasferimento indiscriminato del rischio da chi genera una qualsivoglia forma di affidamento a chi spesso non sa neppure bene cosa è contenuto nel titolo della finanza strutturata che contiene in tutto o in parte l’operazione originata a monte.

Per chiunque sia avvezzo da tempo ai fasti ed ai nefasti del rutilante e magico mondo della finanza, quel mondo che, come ci ha ricordato di recente George Soros, veniva visto dall’ex attore e due volte presidente degli Stati Uniti d’America, Ronald Reagan, come un luogo magico dove tutto era possibile, la ricostruzione fornita in modo più che imbarazzato dai vertici di Socgen non può, per quanto ciò appaia assurdo, essere scartata a priori e vista solo come un modo alquanto comodo per coprire errori che la divisione Corporate and Investment Banking della banca multinazionale avrebbe commesso, e certamente ne ha comunque commessi altri visti i dati degli ultimi due trimestri, in un momento così difficile per i mercati finanziari quale è quello che stiamo vivendo.

Dico questo perché credo che, in questo come in altri casi, la dietrologia non serva e che spesso la realtà è più semplice di quanto non appaia a chi vede sempre la creazione del mostro o del capro espiatorio, cosa peraltro legittima e confortata da una casistica storica più che abbondante, e che quella assoluta e pervicace deregolamentazione lamentata da Soros nel suo brillante articolo sull’autorevole Financial Times e non a caso intitolato The Worst Market Crisis in 60 Years (la peggiore crisi di mercato negli ultimi sessanta anni) rende tutt’altro che incredibile che le cose siano andate esattamente nel modo riportato dal comunicato ufficiale e dalla lettera di scuse agli azionisti redatti entrambi dai vertici di Socgen.

Chi legge sin dal suo inizio questo diario della crisi finanziaria credo proprio che non possa sospettarmi di indulgenza verso i variegati attori e comprimari di quel calderone che è rappresentato dal mercato finanziario globale e ritengo che sia in grado di percepire che nel ritenere che un singolo trader di livello medio basso abbia effettivamente commesso quanto gli è addebitato, come è peraltro accaduto in una sfilza di casi precedenti nei quali l’abilità si è coniugata con una fortissima dose di spregiudicatezza, si pronuncia al contempo una condanna senza appello di un modo di essere e di operare di entità multinazionali del credito e della finanza che da sole renderebbero necessaria una riforma radicale dell’inadeguato e lacunoso corpo di leggi e regolamenti cui tutte le entità operanti nel mercato finanziario sono tenute attualmente a rispettare.

Come ogni volta dopo un caso del genere, e ricordo che alcuni hanno portato al dissesto e al successivo salvataggio delle entità finanziarie nel quale il caso si era verificato, ci si chiede come sia possibile che una persona quale Jerome Kerviel, un quadro di medio livello, non un altissimo dirigente, di una banca che, oltre ad essere la seconda nella graduatoria francese, è presente in ben 77 paesi del mondo con 120 mila dipendenti, abbia potuto mettere in piedi per almeno un anno posizioni che, secondo l’assistente del presidente Sarkozy, ammontavano a più di 50 miliardi di euro (cioè più di 73 miliardi di dollari), una cifra addirittura superiore all’attuale capitalizzazione di borsa di Socgen (35,9 miliardi di euro, almeno per ora), senza che sia suonato alcun campanello di allarme e senza che nessuno dei suoi supervisori, quattro o cinque dei quali in via di licenziamento, si sia accorto di nulla.

Ebbene, ciò è perfettamente possibile, il che non vuole assolutamente dire che ho la certezza che sia andata effettivamente così, perché è altrettanto perfettamente possibile, avendo le necessarie nozioni di informatica, la necessaria conoscenza delle procedure interne, nonché, ovviamente, un’ottima conoscenza dei derivati che si stanno gestendo, creare uno schermo efficace che non consente a chi è deputato a farlo di accorgersi della natura fraudolenta di operazioni che, per quanto di dimensioni rilevantissime, apparentemente tali non sono e potrebbero anche essere state spalmate su un numero di traders ignari di quello che stava accadendo.

Ripeto che se le cose sono andate come sostiene il numero uno di Socgen, quel Bouton che si è visto, almeno per il momento, respingere le dimissioni dagli attoniti consiglieri di amministrazione, e che ha ricevuto, anche in questo caso almeno per ora, la comprensione della Banca di Francia e dei ministri competenti, la cosa è ancora più grave che se vi fossero stati errori di posizionamento sui mercati debitamente autorizzati, come nel caso di quella miriade di operazioni che ha reso necessario operare accantonamenti per ulteriori 2,05 miliardi di euro, perché è difficile credere che, come sostiene Socgen, siano state prontamente sigillate tutte le falle dei sistemi di sicurezza interni che il giovane trader aveva bellamente infranti.

Esaurita, peraltro, la fase della solidarietà iniziale del governo e della Banca di Francia con i vertici di Socgen, è prontamente scattata la fase delle accuse e delle recriminazioni, per ora basate sul fatto che tra la scoperta del buco e l’informazione ai ministeri competenti sono passati ben quattro giorni e almeno tre sedute di contrattazioni nel corso delle quali il titolo ha registrato rilevanti perdite senza che se ne capisse, almeno chi era all’oscuro dell’accaduto, il reale motivo.

L’altro aspetto della vicenda che ha tenuto impegnati, del tutto indifferenti rispetto agli argomenti ufficialmente all’ordine del giorno, la miriade di cervelli presenti al World Economic Forum che si tiene in questi giorni a Davos, ridente località della Confederazione elvetica, è rappresentato dalla decisione presa da Socgen di liquidare tutte, o quasi, le posizioni aperte, una decisione presa evidentemente nel momento peggiore per quei listini azionari europei che, pare, erano l’oggetto delle scommesse di Kerviel, con l’ovvio risultato di deprimere ancora di più gli stessi indici e di ampliare a dismisura le perdite stesse.

Non vorrei essere nei panni del numero uno di Socgen quando dovrà rendere conto della vicenda ai ministri economici, al Governatore della BdF e, forse, allo stesso Sarkozy, dei ritardi con i quali è stata comunicata alle autorità competenti e delle modalità operative seguite nel risolvere la stessa, anche perché credo vi sarà poco fair play in quei colloqui.

venerdì 25 gennaio 2008

Socgen irrompe nella tempesta perfetta

L’accordo bipartisan al Congresso degli Stati Uniti d’America ha consentito di operare un efficace restyling del piano di restituzione fiscale reso noto, senza peraltro riscuotere grande successo nell’opinione pubblica e senza che si verificasse la prevista reazione positiva sui mercati finanziari, da George W. Bush, un rifacimento parlamentare che è andato in profondità su questioni non secondarie quali una maggiore concentrazione dell’aiuto alle famiglie, la velocizzazione dei tempi di erogazione, con relativa priorità in favore dei redditi più bassi, la scelta di favorire gli investimenti delle piccole imprese per la quota del piano che riguarda, appunto, le imprese, un’estensione temporanea dei limiti per i mutui erogati da Fannie Mae e Freddie Mac, che dovrebbe passare da 470 mila ad un massimo di 700 mila dollari.

Un più che soddisfatto Henry Paulson, l’ex numero uno di Goldman Sachs e, pro tempore, ministro del Tesoro USA, ha accolto in pieno le modifiche che rendono molto più tempestivo ed efficace il suo piano di fiscal restore, eliminando quell’impostazione reaganiana che tendeva a favorire oltremodo e in modo indiscriminato le imprese e che, per quanto riguarda le famiglie, non teneva conto del numero dei figli, né dava priorità nell’erogazione alle situazioni di maggiore bisogno, così come deve essere stata musica per le sue orecchie l’ampliamento delle possibilità di intervento delle due disastrate entità semipubbliche operanti nell’ancor più disastrato settore del mortgage.

Restano tutti i dubbi espressi un po’ da ogni parte sulla possibile efficacia dell'intervento sul piano non secondario del rilancio dei consumi, in quanto, secondo i primi sondaggi, la maggioranza dei contribuenti beneficiati sarebbe orientata ad utilizzare le somme ricevute dal governo per ridurre il crescente indebitamento, in particolare la parte di esso legata all’utilizzo delle carte di credito revolving, ma non vi è dubbio che, almeno nella formulazione rivista dal Congresso, il piano di fiscal restore potrebbe esercitare un non disprezzabile effetto psicologico sui sempre più inquieti consumatori statunitensi, che, è bene ricordarlo, sono sempre i consumatori più consumatori dell’intero pianeta ed anche i più sensibili alle lusinghe scintillanti dei prodotti superflui.

Sulla velocità dell’intesa bipartisan e sull’accettazione da parte della amministrazione Bush di un vero e proprio stravolgimento della filosofia iniziale del piano hanno certamente pesato i dati diffusi ieri sull’andamento delle vendite delle case esistenti nell’intero 2007, una flessione che, nel caso delle case indipendenti così care al modello americano, ha toccato il 13 per cento, la peggiore flessione dal -17,7 per cento del 1982, ed una flessione del prezzo mediano (badate bene non medio) dell’1,8 per cento che pone tale prezzo a 217 mila dollari, una flessione che non si verificava da ben quaranta anni, per l’esattezza dal lontanissimo 1968.

E’ solo il caso di ricordare di sfuggita che l’attività edilizia ha un peso molto significativo sulla crescita complessiva dell’economia statunitense e che svolge un ruolo fondamentale nel dato aggregato dell’occupazione, così come sono noti i riflessi del valore del patrimonio immobiliare e del relativo servizio del debito su quei consumi delle famiglie e dei singoli individui che pesano in modo assolutamente preponderante sul PIL statunitense e sulle aspettative di esportazione dei paesi asiatici e di quei paesi arabi che fanno la parte del leone nelle esportazioni di prodotti petroliferi.

Venendo alle questioni più attinenti alla crisi finanziaria in corso, non vi è dubbio che anche la giornata di ieri sui mercati posti sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico ha dato il suo contributo a quell’aumento ormai costante della volatilità che, se fa la felicità degli hedge fund (è di questi giorni la costituzione, da parte della solita Goldman Sachs, di un mega hedge da 7 miliardi di dollari), anche se dagli indici la volatilità si è trasferito sulle quotazioni di singoli titoli, in particolare su quelli delle due assicurazioni monoline ormai da molte sedute nella tempesta e che hanno ieri pagato un pesante pegno all’allungamento dei tempi per un’eventuale ma molto improbabile piano di salvataggio delle stesse che, è bene ricordarlo, sono specializzate nel garantire le emissioni obbligazionarie di ogni specie e natura, incluse, ovviamente, quelle definite come facenti parte della finanza strutturata, dagli LBO ai CDO e quant’altro hanno partorito le fervide e prolifiche menti degli addetti alle cosiddette fabbriche prodotto delle banche globali.

Oltre alle minori probabilità di un piano di salvataggio, MBIA e, ancor di più, Ambac, hanno sofferto per il brusco downgrade subito dalla loro concorrente Security Capital Assurance, “decapitata” da Fitch che ha portato il rating da AAA ad una solitaria ed un po’ desolata A, ricordo che senza la tripla A o giudizio equivalente è di fatto impossibile operre in questo settore e che Ambac è stata da poco degradata ad AA e la controllata Ambac Financial ha ormai una sola A.

Ma la vera notizia del giorno è quella della forte perdita di 7,14 miliardi di dollari su un volume sottostante non meglio precisato annunciata da Société Générale, uno dei due colossi francesi del credito, entrambi molto attivi nel settore della finanza strutturata e che hanno un peso sul mercato da 20 mila miliardi di euro della finanza in senso lato europea che è molto superiore a quello che le stesse hanno nell’aggregato creditizio in senso stretto nell’ambito degli stessi confini geografici, una perdita derivante da quella che il comunicato ufficiale di Socgen definisce una frode ai suoi danni messa in atto da un singolo trentenne operatore, che la stampa individua in Jerome Kervial, dipendente di Socgen dal 2002 e che ora sarebbe latitante, e che ha portato al licenziamento del diretto responsabile ed a quello che è stato definito come il prossimo allontanamento di coloro che erano tenuti a controllarlo.

Nello stesso scarno comunicato, Socgen, rende noto che la banca chiederà al mercato nuovi capitali per 5,5 miliardi di euro (8,02 miliardi di dollari) e che il consiglio di amministrazione ha respinto le dimissioni prontamente presentate dal presidente ed amministratore delegato, Daniel Bouton, rendendo altresì noto che la cosa andava avanti da tempo, ma che è stata scoperta solo lo scorso week end, grazie anche alle pronte chiusure effettuate dal giovane operatore proprio a seguito della volatilità estrema presente venerdì sui mercati azionari statunitensi sui quali operava tramite futures per ammontari nozionali che, ripeto, non sono stati precisati da Socgen.

La notizia è giunta come una bomba sul World Economic Forum riunito a Davos in Svizzera, dove erano presenti anche membri del governo francese e banchieri di peso di quel paese, oltre ovviamente ad una folta platea di banchieri, economisti e ministri dell'economia di ogni parte del mondo, ed è proprio da Davos che sono giunti i primi, autorevoli, dubbi sulla versione fornita dal quartier generale della banca francese, mentre le ormai pronte società di rating hanno annunciato di aver messo sotto osservazione negativa Societé Generale.
Post scriptum
Come si premurano di ricordare oggi parecchi quotidiani, la truffa del trader solitario ricorda molto quella che venne perpretata ai danni della Barings, la cosiddetta banca della regina britannica, da Nick Leeson, e che era di "soli" 1,5 miliardi di dollari, sufficienti però a costringerla al fallimento ed alla cessione della stessa alla banca olandese Ing per il prezzo del tutto simbolico di ina sterlina; d'altro canto, le pronte reazioni della Banca di Francia e di due autorevoli esponenti del governo francese, nonché la ben nota attenzione di Nicholas Sarkozy per le vicende economiche, rendono più che probabile la rimessa in cantiere di quella fusione tra Socgen e BNP Paribas di cui tanto si era parlato in tempi non lontani, anche se ora le finalità dell'operazione sarebbero di tipo meno strategico e meno legati all'esigenza di creare un campione nazionale e, ove venisse realizzata, avrebbe più le caratteristiche di un bailout del tipo di quelli che stanno avvenendo nel mercato finanziario statunitense.

Allacciate le cinture di sicurezza! (3)


Nemmeno dopo un taglio dei tassi sui Fed Funds di dimensioni francamente mostruose, gli indici principali della borsa statunitense si sono risollevati e, dopo l’illusione proveniente ieri mattina dai forti rialzi dei mercati asiatici e l’inizio positivo delle contrattazioni sui mercati europei, si è presto tornati a decisi ribassi favoriti da un clima di incertezza e di paura, mentre si infittivano i rumors su perdite di dimensioni gigantesche riferite ora a questa ora a quella grande banca dell’area euro o della Gran Bretagna o dell’extracomunitaria confederazione elvetica.

Mentre tutti ora fanno a gara nel denunciare con forza l’esiziale modello originate to distribuite, spingendosi qualche famoso cattedratico a ricordare che il modello precedente era denominato non a caso originate and hold (crea e mantieni), fornendo un risarcimento morale postumo agli sventurati contraenti di mutui sprezzantemente definiti sub prime, preferisco continuare imperterrito a tenere i conti di questa tempesta perfetta, continuando a concentrare l’attenzione sul mercato interbancario e sulle dimensioni di quel credit crunchche ha già superato la soglia dei mille miliardi di dollari.

Si tratta, peraltro, di un dato largamente sottostimato e basato sulla rozza ma efficace equazione di Jan Hatzius, capo economista di Goldman Sachs, che stabilisce un taglio di 10 dollari nei finanziamenti all’economia per ogni dollaro di perdite per svalutazione o per accantonamenti prudenziali, al fine di mantenere quei ratio patrimoniali che, dall’inizio di questo anno devono rispettare i dettami di Basilea 2, come ha peraltro ricordato di recente il Governatore della Banca d’Italia, che ha anche suggerito alle banche da lui vigilate di considerare quei livelli come minimi da superare, invitandole, al tempo stesso, a prevedere adeguate riserve di liquidità vista l’aria pessima che tira al momento sul mercato finanziario globale.

Quello che è francamente molto sconcertante è dato dal fatto che, non si era ancora spenta l’eco della clamorosa decisione della Federal Riserve assunta a mercati statunitensi non ancora aperti, che già fioccavano le dichiarazioni di esperti, docenti universitari ed operatori che si interrogavano sulle prossime mosse di bernanke e compagni, quasi che il numero uno della Fed abbia realmente una qualche capacità decisionale e non sia, come è ormai ampiamente chiaro, letteralmente guidato dagli andamenti dei mercati e dalle necessità imposte dall’evoluzione della crisi finanziaria.

Non può non venire in mente la ben diversa autonomia di giudizio e di decisione che caratterizzava Paul Volker, forse l’ultimo presidente della Fed ad essere in grado di scontrarsi frontalmente con il presidente pro tempore degli Stati Uniti d’America e che fu rimosso bruscamente in favore di Alan Greenspan proprio dopo uno di questi scontri epici con il padrone di turno degli USA e con il potere politico più in generale, un uomo, Volker, di cui ancora viene ricordata la capacità professionale e la rettitudine, soprattutto ove queste qualità vengano confrontate con i suoi due successori.

Ma credo proprio che, con l’ineffabile professor Bernanke, questa attitudine della Federal Reserve di tagliare di stare, come si usa dire in gergo, dietro la curva dei tassi sia giunta ad una vera e propria plateale evidenza, un’attitudine aggravata dalla più totale indifferenza nei confronti del problema rappresentato dalla vivace dinamica dei prezzi e dei legami intercorrenti tra l’economia monetaria e quella reale.
Non voglio con questo trascurare l’impatto che hanno avuto sui mercati europei le parole, una vera e propria secchiata di acqua gelida, pronunciate da Jean Claude Trichet, un banchiere francese un tempo noto per la sua allegria ma che, da quando si è trovato un po’ fortunosamente alla guida di quellaentità denominata Banca Centrale Europea, ma che tutti non a caso continuano a chiamare Bundesbank, è divenuto più triste di un tedesco e, forse più di un tedesco, ossessionato dall’incubo dell’inflazione, quasi avesse vissuto la tragica esperienza della Repubblica di Weimar.

Ormai chiaramente contagiato dallo spirito templare che anima parte del Board di Francoforte, Trichet continua a lanciare segnali di un possibile rialzo dei tassi, del tutto incurante delle pressioni provenienti da governi, imprenditori e sindacati dei principali paesi dell’Unione Europea che chiedono insistentemente una riduzione, almeno simbolica, di quei tassi di interesse ormai superati verso il basso anche di tassi USA che cinque mesi orsono superavano quelli europei di poco meno di due punti percentuali.

Ma dietro il tracollo quotidiano delle grandi banche basate nei paesi dell’area euro vi è, purtroppo molto di più, anche se, forse, finiremo per saperlo a metà febbraio se non oltre, quando in realtà buona parte dei giochi saranno fatti, con il non piccolo risultato che, grazie anche a questa clamorosa assenza di informazioni, rischia di pagare anche il giusto per il peccatore, anche perché, in preda alla paura, l’esercito ormai sterminato dei venditori ad ogni costo preferisce sparare nel mucchio.

E’ con tristezza, ma anche con una certa soddisfazione, che ho letto, nel numero dell’Espresso attualmente in edicola, un articolo dettagliato di ben due pagine sull’scandalo finanziario che ha coinvolto la banca Assett di San Marino ed una banca monosportello sita in Romagna, un articolo che, dopo un prolungato silenzio di quasi tutta la stampa nazionale, fa nomi e cognomi dei dirigenti bancari e del faccendiere sanmarinese che, a quanto pare, rappresentano solo la punta di grande iceberg, in quanto la stessa tecnica sarebbe stata utilizzata avendo come sponda istituti di credito italiani di ben altre dimensioni rispetto alla banchetta romagnola.

Non avendo dimestichezza con le favole, in particolare con quelle a lieto fine, non ho dedicato attenzione al possibile interessamento di Unicredit Group per la malandata Merrill Lynch, anche perché sono giustamente piovute secche smentite da entrambe le sponde dell’Atlantico e in quanto ritengo che, come tutti, Profumo di errori ne avrà pure fatto qualcuno, ma che questo sarebbe realmente stato l’errore più grave della sua vita, una vita che sarebbe meglio venisse spesa, come suggerisce il saggio professor Spaventa, a riconvertire il suo grande gruppo creditizio dal suo amato modello originate to distribuite al rodato e collaudato originate and hold, un modello che caratterizza le banche italiane da almeno 500 anni.

mercoledì 23 gennaio 2008

Bernanke rischia di finire le munizioni


La decisione della Federal Reserve di tagliare di 75 punti base il tasso sui Fed Funds poco prima dell’apertura di ieri dei mercati statunitensi e in anticipo sulla riunione del Federal Open Market Commitee prevista per il prossimo 30 gennaio è intervenuta dopo quello che molti analisti hanno definito un vero e proprio meltdown delle borse di tutto il pianeta, una alluvione di ordini di vendita che ha risparmiato solo gli indici statunitensi, in quanto la borsa lunedì era chiusa per festività.

Gli operatori devono avere pensato che un taglio di questa entità e deciso in teleconferenza non potesse che avere motivazioni di fondo molto gravi e che vanno al di là delle turbolenze, per quanto molto forti, dei mercati azionari, anche perché è a tutti noto che sta tornando una relativa calma sul mercato interbancario, e, come era già accaduto venerdì con il piano di fiscal restore di Bush, anche ieri la reazione iniziale alla mossa imprevista di Ben Bernanke e soci è stata estremamente negativa, con il Dow Jones Industrial in calo alle prime battute di oltre 400 punti e il Nasdaq in calo del 5 per cento, il che ha fatto immediatamente scattare il disinnesco dei sistemi automatici di contrattazione.

Si è così creata una situazione francamente paradossale, con i listini europei che dalle perdite dalla mattinata si sono avventurate, con maggiore o minore decisione, in territorio positivo, con rialzi che hanno visto parecchi titoli del settore finanziario recuperare tutto o gran parte delle perdite registrate nel bagno di sangue della seduta precedente, mentre, anche dopo un sensibile recupero, gli indici statunitensi sembravano ancora dominati da un forte pessimismo e si mantenevano di almeno un punto percentuale al di sotto dei non esaltanti livelli sui quali si era chiusa l’orribile settimana scorsa.

L’azzardo di Bernanke, i tre piani annunciati in pochi mesi dal ministro del Tesoro USA e, infine, dallo stesso Bush, insieme ai rumors sempre più inquietanti che circolano su entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico non sono certo stati fugati dai comunicati diffusi da Bank of America e da Wachovia Bank che hanno dovuto ammettere che gli utili del quarto trimestre del 2007 si erano letteralmente polverizzati rispetto a quelli registrati nello stesso periodo dell’anno precedente, con flessioni, rispettivamente del 95 e del 98 per cento, risultati in larga parte dovuti a svalutazioni ed accantonamenti miliardari per entrambe le banche commerciali ed un sensibile calo dei ricavi che ha afflitto sia l’una che l’altra banca.

Né può essere stato di sollievo, per i sempre più inquieti operatori del mercato finanziario statunitense, scoprire che la degradata Ambac, la compagnia monoline che, insieme al colosso MBIA, assicura la gran parte delle emissioni obbligazionarie, ha registrato, sempre nel quarto trimestre, perdite per 3,26 miliardi di dollari, ovverosia un rosso pari a 31,85 dollari per azione, mentre la flessione dei premi incassati è stata pari al 78 per cento, segnale inequivocabile della completa paralisi che sta colpendo l’un tempo effervescente comparto della finanza strutturata, dato ulteriormente aggravato dal vero e proprio balzo in avanti del costo necessario per assicurare un’emissione obbligazionaria.

Come è ormai largamente noto ai pochi lettori delle puntate del diario della crisi finanziaria, non attribuisco grande rilevanza alle oscillazioni di borsa, ma devo confessare di essere rimasto stupito ieri dal balzo in avanti delle quotazioni di Ambac e di MBIA, così come dalle performance delle due banche che hanno annunciato i risultati del quarto trimestre e dell’intero esercizio 2007, giungendo a chiedermi: ma che disastro maggiore si aspettavano gli operatori per essere tutto sommato soddisfatti dalle cifre che emergono da questi bollettini di guerra?

Tornando sulla decisione a sorpresa della Fed, credo sia il caso di ricordare che, quando tutto è iniziato, il tasso sui Fed Funds era da due anni stabilmente posizionato al livello del 5,75 per cento, mentre il tasso di riferimento della Banca Centrale Europea si collocava sul 4 per cento, mentre, oggi, il tasso sui Fed Funds, un tasso che orienta la maggior parte dei finanziamenti indicizzati è giunto al 3,50 per cento e quello gestito dai templari della BCE continua ad essere inchiodato sul 4 per cento, con un orientamento, non si sa se per celia o per non morire, minacciosamente orientato, per la disperazione dei governi dei paesi dell’area euro, ad uno o più rialzi.

Credo proprio che a Francoforte si siano dimenticati della metafora della coperta troppo corta per coprire tutto e il contrario di tutto, anche perché gli sforzi immani che la BCE sta compiendo per evitare che l’euro si riporti in vista del livello di 1,50 dollari diventano difficilmente efficaci quando il differenziale di tasso tra le due valute da negativo per 175 punti base diviene in soli cinque mesi positivo per 50 punti base, con tendenza ad accrescersi e non a ridursi nell’orizzonte temporale prevedibile e che non basteranno gli acquisti massicci di dollari da utilizzare, via Federal Reserve, in favore dei famelici appetiti delle sempre più malandate banche statunitensi.

Non è certo un caso se l’euro, tornato nei giorni del meltdown borsistico al di sotto di 1,44 dollari, si è riportato ieri nuovamente e prepotentemente al di sopra di 1,46 dollari e che ben altri livelli potremmo vedere nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, quando gli operatori avranno avuto il tempo di metabolizzare le nuove prospettive in termini di differenziale di tasso sulle due valute, mentre lo yen, nel frattempo ha già testato con decisione verso il basso la soglia psicologica dei 105 yen per dollaro, mentre era a 124 yen per dollaro soltanto a luglio del 2007.

Continua, intanto, l’accanimento terapeutico operato con ostinazione degna di miglior causa da Bank of England e governo britannico nei confronti della clinicamente morta Northern Rock, uno spettacolo che ha visto esibirsi improbabili acquirenti del tutto sprovvisti dei requisiti per fare i banchieri, mentre continuano a brillare per la loro assenza le grandi banche britanniche, quelle dell’area dell’euro, quelle statunitensi e persino l’extracomunitaria e globale UBS.

Mentre si è persa ogni traccia dello scandalo finanziario intercorso tra la Repubblica di San Marino e la sua controllata romagnola, né si sa nulla dei dieci amministratori e dirigenti di banca arrestati né dei 37 imprenditori indagati, si viene a sapere che è stato trovato l’accordo per il banco di Sicilia, un’intesa che vedrà l’uscita del presidente Mancuso dalla banca siciliana ma non dal board of directors di Unicredit Group e il dirottamento di uno dei due direttori generali verso analoga carica in un’entità del gruppo, ma con la promessa che il nuovo direttore generale, stavolta in solitaria, sarà scelto tra uno dei tanti dirigenti dello stesso BdS.

martedì 22 gennaio 2008

Uno spettro si aggira per il mondo: i fondi d'investimento sovrani arabi ed asiatici

L’estensione sempre più netta ai mercati azionari di tutto il mondo dei riflessi negativi della tempesta perfetta innescatasi il 9 agosto scorso sui mercati interbancari con il verificarsi della più grave crisi di liquidità dal secondo dopoguerra è ormai sotto gli occhi di tutti, mettendo fine a quello strano fenomeno che aveva visto, quasi sino alla fine dell’anno che si è appena concluso, i listini azionari USA mostrarsi quasi indifferenti ai patemi vissuti dalle banche globali, toccando nuovi massimi storici, nel caso del Dow Jones e dello S&P 500, o massimi di fase per quel Nasdaq Composite che non può realisticamente pensare di rivedere quelli livelli posti immediatamente al di sopra della soglia dei 5000 punti dalla quale è definitivamente precipitato dopo lo scoppio della bolla dei titoli della new technology nel 2000-2001.

Le molteplici cause che erano alla base del decoupling tra le borse e le sofferenze del mercato creditizio, individuabili nella speranza andata delusa dell’efficacia dell’interventismo spinto delle banche centrali sui due fronti dei tassi di interesse e della liquidità, la messa in campo dei massicci programmi di buy back autorizzati in precedenza da banche e corporations USA, l’operare aggressivo sull’elevata volatilità degli hedge funds, le scelte semi automatiche sui supporti dei modelli adottati dai principali operatori, l’ingresso in campo del forte volume di fuoco a disposizione dei fondi governativi dei paesi esportatori di petrolio e dei paesi asiatici caratterizzati da attivi strutturali nelle rispettive bilance commerciali, solo per citare le cause più visibili, sembrano aver esaurito, con il giro di boa del nuovo anno, la loro pur rilevante efficacia.

Non va sottovalutato il fatto che, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, la tenuta sostanziale delle borse si accompagnava a perdite medie delle quotazioni delle banche di ogni ordine e grado e delle principali compagnie di assicurazione monoline impegnate nel fornire garanzie all’emissione dei titoli della finanza strutturata cifrabili intorno al 40 per cento, fatte salve poche eccezioni quali Goldman Sachs da un lato e un gruppo sparuto di banche europee poco esposte sul versante finanziario che erano riuscite a contenere le perdite rispetto ai massimi della prima parte del 2007 a livelli di poco superiori al 10 per cento.

Le prime tredici sedute delle borse USA (chiuso ieri per la festività nazionale in memoria di Martin Luther King) e le quattordici svoltesi sui mercati europei ed asiatici hanno visto sostanzialmente l’evaporazione quasi assoluta delle quotazioni dei colossi assicurativi monoline statunitensi MBIA e Ambac (hanno perso, rispetto al picco delle ultime 52 settimane, il 90 e il 95 per cento del valore), due grandi banche USA, dopo aver perso in un trimestre 10 miliardi di dollari a testa, hanno visto evaporare oltre il 50 per cento dai massimi del 2007, si è aperto il più grande processo di concentrazione nell’ambito dell’industria creditizia statunitense e le maggiori banche europee sono ormai giunte a capitalizzazioni di borsa ormai a valori di saldo.

E’ in questo scenario francamente sconfortante, anche al netto del vero e proprio terremoto in corso sul mercato valutario, che sono uscite da una sorta di anonimato e da un certo torpore quei nuovi soggetti alimentati da un vero e proprio fiume di petrodollari e di dollari e altre valute derivanti dai cronici e crescenti surplus delle bilance delle partite correnti dei paesi asiatici, Cina in testa, quei fondi governativi con dotazioni complessive per diverse migliaia di miliardi di euro che hanno deciso che questo meltdown finanziario rappresentava il momento più giusto per la loro, poco coordinata in verità, discesa in campo.

Ma poiché ricchi non significa necessariamente fessi, le prime mosse dei fondi arabi ed asiatici in soccorso delle principali banche statunitensi e dell’extracomunitaria UBS si sono quasi sempre tradotti nella sottoscrizione di megaprestiti obbligazionari convertibili che danno il diritto di acquistare azioni delle banche emittenti in un comodo arco temporale e garantiscono, nel frattempo, rendimenti compresi tra il 9 e l’11 per cento, rendimenti che fanno certamente bene alle consistenti casse dei fondi governativi, ma che la dicono anche lunga sullo stato di salute presente prospettico delle alquanto malandate banche emittenti, basti pensare che, sino a pochi mesi orsono, era considerato scandaloso lo yield di poco superiore al 7 per cento garantito sulle obbligazioni emesse da Citigroup.

La stessa tecnica dell’intervento, peraltro, fa ritenere che, almeno al momento, non vi siano nei gestori di questi fondi e, ancor più, nelle sofisticate banche d’affari che fanno loro da advisors, alcuna intenzione di passare ad un intervento diretto e più massiccio che, al di là delle prevedibili resistenze statunitensi, svizzere ed europee, avrebbe avuto un impatto maggiormente tranquillizzanti in un mercato finanziario globale che vive la più grave lack of confidence degli ultimi sessanta anni.

Uno sguardo alle dotazioni complessive per paese di questi nuovi soggetti non è fur di luogo o soverchiamente indiscreta, basti pensare che il neonato fondo riconducibile all’Arabia Saudita nasce con una dotazione di 1.000 miliardi di dollari, che superano la dotazione dei rodati fondi di uno dei piccoli ma ricchissimi paesi del Golfo Arabico che ne totalizzano “solo” 900 di miliardi, sempre di dollari, mentre la dotazione complessivi dei fondi governativi cinesi è stimata in un range compreso tra 1.300 e 1.400 miliardi di dollari, né va sottovalutata la dotazione complessiva di tutti gli altri fondi arabi ed asiatici che, secondo una stima prudente e in larga misura approssimata per difetto, non dovrebbe essere inferiore ad altri 2 mila miliardi di dollari.

Secondo le ultime stime fornite dal Fondo Monetario Internazionale, oltre ad intervenire come una sorta di prestatori di ultima istanza, i fondi governativi sono massicciamente impegnati nel più rilevante processo di riequilibrio dei pesi relativi delle diverse valute principali nelle loro dotazioni che, almeno inizialmente erano quasi esclusivamente in dollari, processo che le rispettive banche centrali stanno mettendo in atto da molti anni e che minaccia di portare il peso del dollaro sul totale delle valute convertibili detenute al di sotto della soglia del 60 per cento, con un netto recupero dei pesi relativi dell’euro e dello yen, mentre meno significativo dovrebbe essere il progresso della sterlina.

Altrettanto attivi sembrano essere questi fondi nell’accumulazioni di posizioni fisiche o mediante strumenti derivati in oro e altri metalli preziosi, ma, più in generale, nelle materie prime petrolifere o di altro genere e, the last but not the least, nel non disprezzabile mercato delle derrate alimentari, sempre mediante contratti spot e derivati.

E’ difficile prevedere gli sviluppi dell’operatività di questi fondi che devono rendere conto solo ai loro governi, ma è sicuro che oscureranno le stelle ormai discendenti dei private equity e degli altri investitori istituzionali tradizionali.

Serve più coraggio, Governatore Draghi!

Dopo aver retto per quasi cinque mesi ai venti impetuosi della tempesta perfetta innescatasi il 9 agosto scorso, i mercati azionari di tutto il mondo hanno iniziato a flettere pericolosamente a partire dalla prima seduta del 2008, ma è stato ieri che l’ondata ribassista, praticamente senza eccezione di fuso orario, ha amplificato la sonora bocciatura espressa dagli operatori economici statunitensi del piano di fiscal restore annunciato in pompa magna da George W. Bush, assistito e quasi sorvegliato dal suo burbero vice Cheaney e dall’ex numero uno di Goldman Sachs e pro tempore ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, che sembra ormai sempre più impaziente di lasciare gli inutili e poco retribuiti giochi della poltica per dedicarsi al suo passatempo preferito e ottimamente remunerato di banchiere d’affari.

Non era evidentemente bastato il clamoroso fallimento di quel SIV dei SIV o Conduit dei Conduit, denominato MLEC e tenuto a battesimo dalle tre maggiori banche statunitensi quale escamotage per stabilizzare quell’immenso mercato dei titoli della finanza strutturata ormai chiaramente snobbati dagli investitori che da mesi si rifiutano ostinatamente di avervi nulla a che fare, un fondo che avrebbe dovuto avere una dotazione di 100 miliardi di dollari e che è stato ignominiosamente archiviato sul finire del 2007 per manifesto disinteresse delle banche promotrici, nel silenzio quasi assordante di quella stampa economica embedded che lo aveva salutato con toni entusiastici, dedicando, invece, scarni articoletti al suo mesto de profundis.

Né, forse, era stata sufficiente l’altrettanto ignominiosa fine di quell’altrettanto strombazzato progetto Hope Now, altra brillante pensata del nostro Paulson (rubata peraltro, previo stravolgimento, ad una brillante dirigente di un dipartimento del governo federale), che avrebbe dovuto ridare speranza ad una parte dei mutuatari disperati da un innalzamento pauroso dei tassi previsto dai contratti capestro da loro incautamente sottoscritti e condito dalla pubblicizzazione di numeri verdi del cui malfunzionamento vi è ampia descrizione in numerosi e documentati articoli e reportage televisivi.

Sorvolo, avendo già trattato l’argomento nella puntata precedente del diario, sugli aspetti più controversi di questa mossa azzardata, in parte inutile e certamente fuori tempo annunciata venerdì scorso dall’amministrazione Bush, per concentrarmi sui danni che, a partire dai forti tonfi registrati in Asia, questa trovata geniale ha prodotto sui mercati europei, e qui si è fermata perché, per fortuna, i mercati USA erano chiusi ieri per la festa nazionale in ricordo di Martin Luther King, ma che avranno modo domani di aggiungere pioggia a pioggia.

Noto, solo di passata, che i cali registrati ieri dal FTSE di Londra dal CAC 40 di Parigi e dal DAX di Francoforte, per non parlare dei listini di riferimento di Milano e di Madrid, sono, per gli amanti delle statistiche, peggiori anche di quelli che furono registrati all’indomani dell’11 settembre 2001, anche per ricordare che, sempre con riferimento a quella fatidica e gravida di conseguenze data funesta, anche l’intervento sul mercato interbancario operato dalla BCE il 9 agosto 2007 superava di una volta e mezza quello effettuato in circostanze tragiche sei anni prima dalla stessa Banca Centrale Europea, intervento, peraltro, surclassato dalla miriade di ben più massicce iniezioni di liquidità operate successivamente, per giungere, nel dicembre dell’anno che si è appena concluso, alla mega operazione che superava di ben sei volte quello del 2001, ma, come si sa, a mali estremi estremi rimedi.

Vorrei risparmiare ai lettori il vero e proprio bollettino di guerra rappresentato dai crolli delle quotazioni della banche dell’area euro, di quelle britanniche e di quelle residenti nell’extracomunitaria Svizzera, limitandomi ad osservare che, nella maggior parte dei casi le flessione sono state nell’ordine dell’8-9 per cento e che per quasi tutte le banche e le compagnie di assicurazione i prezzi di riferimento segnati alla fine del bagno di sangue rappresentano nuovi minimi delle ultime 52 faticose settimane, mettendo al contempo la parola fine alle residue speranze di un decoupling tra le entità della finanza basate in Europa e quelle operanti negli Stati Uniti d’America.

D’altra parte una lettura attenta e spassionata del lucido intervento tenuto dal professor Mario Draghi, dalla fine del 2005 Governatore della Banca d’Italia dopo la disastrosa era Fazio, alla riunione annuale del Forex e delle altre associazioni professionali degli operatori della finanza tenutasi a Bari lo scorso week end consente di comprendere la profondità della crisi, la strumentazione e la portata degli interventi messi in atto dalle banche centrali, le responsabilità del modello originate to distribuite, o meglio della scarsa qualità dei prodotti che venivano originati dalle fabbriche prodotto di banche e compagnie di assicurazione per poi essere allegramente distribuiti ad investitori e risparmiatori, nonché ampi cenni alla virata energica impressa all’attività di vigilanza e al sistema dei controlli interni imposti d’autorità ai soggetti vigilati.

Non c’è che dire, una ventata d’aria fresca dopo l’umiliante esperienza da me provata per alcuni anni in quello stesso consesso ad ascoltare il Governatore di Alvito (FR) discettare dell’universo mondo a pochi mesi dalla fissazione delle parità fisse e irrevocabili delle valute candidate a partecipare all’euro, riuscendo l’alvinate a non pronunciare mai la parola euro o far cenno a quella disperata rincorsa che aveva consentito, contro il parere del Governatore medesimo, all’Italia di entrare, sin dall’inizio, in quella avventura.

Detto questo, e me ne rammarico, non posso non sottolineare quello che manca nel discorso di Draghi, con l’aggravante che il curriculum e il cursus honorum del professore sono realmente eccellenti e non consentono di pensare che quello che non vi è derivi da distrazione o, peggio, incompetenza, anche perché credo sinceramente che raramente bagaglio di conoscenze ed esperienze sul campo siano state ben coniugate come nel caso dell’attuale Governatore.

Quello che manca, dopo l’eccellente diagnosi, è l’indicazione di una efficace terapia, che, dispiace dirlo, non è certo questione di tecnicalità, ma del coraggio di individuare nuove regole per i soggetti che operano nel mercato finanziario, sì proprio di quelle regole che vengono viste come il fumo degli occhi dai numero uno superstiti delle grandi banche statunitensi, europee ed asiatiche, persone che ritengono che, al massimo, si può pensare a meccanismi autoregolatori ideati e messi in atto dagli stessi interessati, anche perché, anche se non lo dicono esplicitamente, questo è il mercato, bellezza!

Professor Draghi, non ripeta, quando a marzo sarà chiamato a riferire al vertice del G7, l’errore commesso nel caso degli hedge funds, per i quali, sempre da presidente del Financial Stability Forum, ha escluso la necessità di una regolamentazione, anche perché stavolta ne va del futuro del mercato finanziario nel suo complesso.

sabato 19 gennaio 2008

G.W. Bush, un Robin Hood alla rovescia

I 36 miliardi di dollari di svalutazioni e accantonamenti attribuibili a due sole, per quanto grandi, banche statunitensi, Citigroup e Merrill Lynch, ed i loro complessivi poco meno di 20 miliardi di dollari di perdite, le recenti stime fornite dal neo capo della Vigilanza della prudente Banca d’Italia sulle probabili perdite, cifrate a 600 miliardi di dollari, o quelle ancora più pessimistiche fornite dal professor Luigi Spaventa, che parla di almeno 1000 miliardi di dollari, sono solo alcuni degli elementi che rendono più comprensibili le mosse un po’ disperate di Ben Bernanke e compagni e dei loro solitamente arcigni colleghi della BCE, così come la raffica di piani mai finalizzati annunciati in pompa magna da un G. W. Bush, che li annuncia avendo sempre alle spalle, quali angeli custodi, il suo burbero vice Cheaney e l’ex numero uno di Goldman Sachs e pro tempore ministro del Tesoro USA, Henry Paulson, i quali hanno sempre l’aria di temere che il loro alunno non sia in grado di ripetere bene la lezione che si sono sforzati in precedenza di impartirgli.

Il maxi piano di ristoro fiscale presentato venerdì, infatti, non si differenzia molto dallo strombazzato Hope Now che avrebbe dovuto porre in qualche modo rimedio alle difficoltà delle banche più che a quelle dei disperati mutuatari e che, proprio per questo, è impanatanato al Congresso da uno schieramento trasversale che sa bene che i voti di banche e finanziarie contano molto meno di quelli dei cittadini in un anno cruciale per la campagna presidenziale e per il rinnovo completo della Camera dei Rappresentanti e di parte del Senato, puntando, il nuovo piano, a destinare alle imprese ben un terzo delle risorse disponibili, tra 140 e 150 miliardi di dollari, mentre i politici di entrambi gli schieramenti hanno chiaramente detto che tutta la dotazione, o larghissima parte di essa, deve essere destinata alle sempre più pessimiste ed inguaiate famiglie americane.

Vorrei chiarire che le idee che sono alla base dei due progetti presidenziali sono assolutamente incontestabili, in quanto vanno in qualche modo alla radice dei problemi dal lato della domanda (non a caso, sono entrambi tacciati di essere assolutamente keynesiani), ma il problema nasce quando le idee di fondo vengono passate al vaglio delle potenti lobbies esistenti in modo del tutto legale negli Stati Uniti d’America, vaglio che si trasforma immediatamente in un risultato finale che riconferma ancora una volta il giovane rampollo di una casata scarsamente indagata nelle sue origini, come è quella dei Bush, come una sorta di Robin Hood alla rovescia e le sue ricette sempre più evidentemente caratterizzate da un crescente tasso di inefficacia, prima ancora che di plateale ingiustizia.

Venerdì è accaduto negli Stati Uniti quello che si temeva ormai da qualche settimana, con l’agenzia di rating Fitch che, battendo sul tempo le due prestigiose ma un po’ frastornate rivali, ha deciso di abbassare il rating di Ambac dalla indispensabile tripla A alla doppia A, ma calcando di più la mano sulla controllata Ambac Financial ridotta ad una sola A, decisione che era stata in modo preveggente anticipata dal mercato che aveva falcidiato in due sole sedute il valore dell’azione della sfortunata compagnia monoline e che è stata resa nota proprio mentre era in corso un timido rimbalzo della quotazione, rimbalzo, ovviamente, prontamente abortito negli ultimi dieci minuti di contrattazione.

I rintocchi della campana a morto risuonata per Ambac sono stati uditi chiari e forti nella sede centrale del colosso MBIA, il cui board of directors ancora pensava che l’aumento di capitale di un miliardo di dollari potesse rappresentare una misura sufficiente per evitare, a sua volta, l’onta di un downgrade esiziale per le sue attività, una degradazione che, ne sono più che sicuro, è solo rinviata, e di non molto, nel tempo.

Non vorrei apparire superstizioso, ma devo confessare che la tredicesima seduta dall’inizio dell’anno a Wall Street è anche quella che ha segnato la netta preponderanza delle flessioni rispetto ai, sempre più timidi, recuperi, dei tre principali indici statunitensi, né credo che possa consolare alcuno il fatto che la flessione a chiusura dell’ottava di borsa sia stata meno pesante delle altre segnalate nella stessa settimana, anche perché, al di là delle possibili critiche e puntualizzazioni, la giornata si era aperta con l’annuncio di un intervento fiscale che, pur nel suo carattere spot e non strutturale, presenta dimensioni pari a cinque o sei medie leggi finanziarie nel nostro Paese.

Nonostante i successi conseguiti dalla Banca Centrale Europea nella sua strenua lotta contro il clima di reciproca sfiducia esistente tra le banche europee di ogni ordine e grado, una campagna condotta con iniezioni di liquidità decisamente abnormi e con la rivoluzionaria decisione di accettare anche i titoli della finanza strutturata, ormai considerati decisamente al di sotto dei famigerati junk bonds, a garanzia dei finanziamenti così generosamente elargiti, un successo cifrabile in spreads superiori di "soli" 50 punti base ai tassi ufficiali nella scadenza a tre mesi, ricominciano a circolare, tra i giornalisti economici solitamente ben informati, voci di difficoltà crescenti per più di un continental player operante nell’area europea, Gran Bretagna ed extracomunitaria Svizzera incluse.

Come ho avuto più volte modo di sottolineare, esiste una differenza temporale rilevantissima tra l’informazione societaria statunitense e quella europea, differenza a tutti visibile in questi giorni, con le banche USA che stanno progressivamente alzando il velo sul disastro annidato nei loro conti, con un outing collettivo che sarà definito nelle sue dimensioni entro pochi giorni, mentre per le indiziate banche europee sarà necessaria un’attesa che, nella migliore delle ipotesi, è nell’ordine di alcune settimane.

Pur dubitando dell’esistenza dell’ormai mitico giudice a Berlino, anche dopo i crescenti guai in cui incorrono i magistrati italiani sempre più spesso messi alla gogna per per il solo crimine di fare il loro mestiere senza guardare in faccia a nessuno, oso avanzare il suggerimento alle banche europee di ogni ordine e grado, anche al fine di porre termine a rumors che non posso che augurarmi siano del tutto infondati, di decidere unilateralmente di fornire al più presto anticipazioni sullo stato dei loro conti per l’ultimo quadrimestre e per l’intero esercizio 2007, anche perché ho fondati motivi per ritenere che né la BCE, né le autorità di vigilanza sui rispettivi mercati e, tantomeno, i governi prenderanno provvedimenti volti a che questo avvenga.

Ovviamente, il mio modesto suggerimento è esteso alle entità off balance sheets (SIV, Conduite quant'altro), alle compagnie di assicurazione, agli hedge funds ed a tutte le altre variegate entità che popolano un mercato finanziario europeo che, nella sola parte in qualche modo collegata alla finanza, presenta un attivo complessivo che, almeno a valori nominali, si aggira sui 20 mila miliardi di dollari.

venerdì 18 gennaio 2008

Citi e Merrill Lynch affondano le borse


I risultati presentati da Citigroup prima e da Merrill Lynch giovedì consentono di comprendere meglio il giudizio sostanzialmente positivo che ho dato sulla sostanziale tenuta dei conti di J.P. Morgan-Chase nel quarto trimestre 2007, sottolineando che gli stessi rappresentavano una bella rivincita di un modo più tradizionale di fare banca rispetto a quello dominante tra i principali e inguaiati concorrenti, banche e finanziarie che ormai più che credito facevano da intermediari tra clienti sempre meno conosciuti e investitori a caccia di alti rendimenti.

Ebbene, i disastrosi oltre ogni aspettativa risultati resi noti dal nuovo CEO di Merrill, l’ex numero uno del NYSE, John Thain, presentano una fotografia della banca statunitense che lascia letteralmente senza parole, con una perdita che supera i 10 miliardi di dollari e batte dunque quella evidenziata da una Citigroup che presenta un attivo molto più ragguardevole, una perdita non mitigata da alcuna forma di dividendo estratto dal cappello delle riserve, ma, soprattutto ricavi negativi per 8 miliardi circa di dollari contro gli 8 miliardi positivi del quarto trimestre 2006, quando gli utili si ponevano al livello di 2,3 miliardi di dollari.

Ma, al navigato ed astuto top manager statunitense appena approdato a Merrill a fronte di un lauto premio di ingaggio ed un contratto blindato, non mancano i motivi di soddisfazione per una situazione largamente diversa da quella che caratterizza il giovane CEO indiano di Citi, in quanto ha apposto la sua firma su conti che hanno posto quasi termine ai disastri della finanza strutturata con un’accelerazione che consente, come fanno quasi tutti i manager al loro esordio, di fare una pulizia radicale, caricando su un orribile 2007 del quale molto difficilmente può essere ritenuto responsabile tutto quello che può essere caricato e creando una pessima base di partenza al cui confronto i risultati futuri potrebbero brillare e non poco.

La svalutazione per 11,5 miliardi di dollari è, infatti, interamente dedicata ai micidiali CDO, così come ulteriori 3,1 miliardi sono destinati ad aggiustare le posizioni hedge assunte sugli stessi, il che consente a Merrill di ridurre da 15,8 a 4,8 miliardi di dollari l’esposizione sui CDO e di dimezzare a 2,71 l’esposizione nel comparto dei subprime residenziali, giungendo così a valori assoluti molto gestibili, per non parlare poi delle sopravvenienze attive che potrebbero realizzarsi su parte della montagna di titoli messi a perdita negli ultimi due trimestri dell’anno che si è appena concluso.

Da un certo punto di vista, poi, anche il disastroso dato delle nuove case realizzate nel 2007 negli Stati Uniti d’America, una flessione del 25 per cento circa che riporta al -26 per cento del 1980, quando, però, era in corso una feroce stretta creditizia che portò al licenziamento di Paul Volker, forse l’ultimo banchiere centrale USA realmente indipendente dal mercato e dalla politica, rappresenta una buona base di partenza per un 2008 che potrebbe essere peggiore solo se non si trovano efficaci rimedi all’effetto domino.

Non è, quindi, un caso se, dopo la scontata benedizione giunta, nel corso di un’audizione al Congresso, dal tutto meno che arcigno Ben Bernanke, oggi è previsto l’annuncio di Bush su un piano di sostegno ai redditi, via riduzioni di 300 o 500 dollari per contribuente a carattere spot o strutturale, un piano che dovrebbe facilmente ottenere un appoggio bipartisan, in qualche modo anticipato dalle esplicite dichiarazioni del presidente democratico della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi.

Quella che sembra difficile arrestare, invece, è la continuazione di quel processo apparentemente inarrestabile di liquefazione che continua a colpire i titoli dei due colossi assicurativi monoline, un processo che ha assunto giovedì caratteristiche realmente drammatiche, con i titoli di Ambac che hanno perso oltre il 50 per cento rispetto al valore di mercoledì, a sua volta in calo del 39 per cento rispetto a quello della seduta precedente, mentre MBIA conteneva le perdite al 31 per cento, una flessione che anche in questo caso viene dopo il tonfo del giorno precedente, con perdite, rispetto ai massimi delle ultime 52 settimane, dell’88 per cento per MBIA e di quasi il 94 per cento per Ambac, perdite che sono in linea nel mondo soltanto con quelle della tecnicamente fallita banca britannica Northern Rock e di quell’italica Italease che è ormai un groviglio di rischi finanziari, reputazionali e giudiziari e che rappresenta una vera e propria palla al piedi, o al collo, del controllante Banco Popolare.

Sorvolo allegramente sul tonfo degli indici asiatici, europei e su quelli di Wall Street di giovedì, così come su quelli asiatici di questa mattina, in quanto, come ho avuto più volte modo di sottolineare, questi non sono che pallidi riflessi di quello che sta realmente accadendo nel mercato finanziario globale.

Niente è più vero, in questa lunga e dall’esito incerto crisi finanziaria, del detto che vuole che ad ogni giorno basta la sua pena, per cui verrebbe la voglia di sorvolare sui rischi derivanti agli scommettitori sul mercato valutario derivanti dalla a loro sgradita ripresa dei corsi dello yen giapponese, una valuta che appare ormai chiaramente prescelta come rifugio da una parte non disprezzabile delle enormi disponibilità finanziarie della Cina, ma che vede più di una fiche gettata sul tavolo anche dai decision maker degli attualmente straripanti fondi governativi arabi.

Non deve essere piacevole per un carry trader vedere una sempre più accentuata riduzione dei differenziali dei tassi di interesse e uno speculare e deciso avvicinamento dello yen verso l’ area dei 100 dollari o meno e il probabile sfondamento del livello dei 150 euro che sembrano, entrambi, ormai nelle cose, una duplice eventualità che potrebbe determinare il botto di singoli investitori e di hedge fund che non abbiano l’abilità o, e questo è più probabile, i mezzi per girare in tempo le posizioni, anche se, ove questo dovesse accadere in modo massiccio, rischierebbe di amplificare a dismisura lo stesso rafforzamento dello yen.

Mentre resta vero che i bonus di Goldman Sachs e di altre grandi banche statunitensi non hanno risentito affatto dell’attuale situazione, mi sembra doveroso segnalare che, nel peggiore anno che il mercato finanziario si sia trovato a vivere negli ultimi decenni, la flessione complessiva dei bonus erogati a Wall Street è stata, addirittura, di qualcosa meno del 5 per cento a fronte di un monte complessivo che continua ad essere cifrato in centinaia di miliardi di dollari, una flessione che forse è da ricondurre alla drastica riduzione degli aventi diritto legata alle centinaia di migliaia di dipendenti di ogni ordine e grado che hanno dovuto forzatamente lasciare le loro più o meno dorate posizioni, mentre, come scrivevo ieri, un fenomeno della stessa lieve entità sta riguardando i 350 mila addetti della City londinese.

giovedì 17 gennaio 2008

Chi brinda e chi piange a Wall Street


La più che prevedibile tenuta dei conti di J.P. Morgan-Chase nel quarto trimestre 2007, con una flessione degli utili cifrabile in poco più di un terzo nei confronti dello stesso periodo del 2006, svalutazioni per appena 1,3 miliardi di dollari e accantonamenti per 2,54 miliardi in gran parte legati al credito al consumo, rappresenta la rivincita di un modo più tradizionale di fare banca rispetto a quello dominante tra i principali e inguaiati concorrenti, banche e finanziarie che ormai più che credito facevano da intermediari tra clienti sempre meno conosciuti e investitori a caccia di alti rendimenti.

Non è, quindi un caso se, anche un po’ zavorrata dai dati dell’ultimo trimestre, la banca che ha visto confluire le fortune dei nipotini del mitico Pierpoint Morgan e quelle della casata Rockfeller ha archiviato un’annata record sia sotto il profilo degli utili che sul fronte dei ricavi (la banca ha registrato utili per 15,4 miliardi di dollari, ricavi per 71,4 miliardi e un dividendo per azione pari a 4,38 dollari).

La chiave esplicativa della maggior tenuta dell’entità erede delle due storiche banche statunitensi è data dalla sua nota ritrosia nell’impegnarsi nella versione spinta del processo di cartolarizzazione dei crediti e relativa esternalizzazione dei rischi, grazie ad un approccio che privilegia il mantenimento di crediti e ricavi nell’ambito delle ampie mura domestiche e questo, forse, anche per l’esperienza tramandata da John Pierpoint Morgan che ancora viene ricordato come l’uomo che salvò la borsa di Wall Street e mise di fatto fine alla tempesta perfetta del 1907, anche se poi subì l'amarezza di un'indagine del Congresso volta a stabilire le sue responsabilità in quelle drammatiche vicende per l'allora a cerbo mercato finanziario statunitense non ancora vigilato da una banca centrale, in quanto la Federal Reserve fu istituita solo successivamente.

La consapevolezza che quella di J.P. Morgan-Chase rappresenta solo una parentesi della tempesta perfetta ha impedito al mercato di brindare e, infatti, ieri si è archiviata la sesta seduta negativa a Wall Street su sole undici giornate di contrattazione dall’inizio dell’anno, una serie negativa che ha già determinato l'annullamento dei guadagni conseguiti dagli indici nell'intero 2007, anche se si sono registrate variazioni meno negative di quelle registrate il giorno precedente.

Le maggiori preoccupazioni, oltre che da un tasso di crescita dei prezzi al consumo che si colloca, nel 2007, ai massimi degli ultimi 17 anni (+4,1 per cento), vengono dal fronte delle assicurazioni monoline statunitensi, le compagnie prevalentemente impegnate nel fornire garanzie alle emissioni obbligazionarie, con i due colossi MBIA e Ambac che presentano flessioni record delle rispettive azioni, flessioni che si collocano all’82 per cento per la prima e all’87 per la seconda rispetto ai massimi delle ultime 52 settimane, mentre ieri Ambac ha lasciato sul terreno poco meno del 40 per cento del valore segnalato il giorno precedente, mentre MBIA è riuscita a non andare oltre una flessione del 16,5 per cento.

La cosa grave è rappresentata dal fatto che il progressivo liquefarsi dei due colossi assicurativi avviene dopo continue iniezioni di liquidità e che, proprio ieri, entrambe le entità avevano annunciato piani realizzati o in corso di realizzazione che dovrebbero consentire loro di evitare l’onta del downgrade da parte delle principali società di rating, eventualità che, sempre ieri, Fitch ha escluso, almeno con riferimento a MBIA.

Il dato relativo al CPI statunitense ricordato sopra e il livello altrettanto record dei prezzi alla produzione non impediranno a Ben Bernanke e soci di abbassare, forse in modo ancora più aggressivo che in precedenza, i tassi di interesse ufficiali, anche se prevedo che il massimo dell’aggressività riguarderà il tasso ufficiale di sconto più di quello sui Fed Funds, anche perché l’attenzione della banca centrale statunitense è certamente più rivolta ai guai delle banche che a quelli che affliggono i cittadini alle prese con le rate del mutuo a tasso variabile e con gli impegni legati alle altre forme di credito al consumo.

Ai lettori distratti che potrebbero puntare la loro attenzione sul dato relativo ai prezzi al consumo ex food ed ex energy, un dato molto più basso del CPI complessivo, ricordo quello che ebbe a dire qualche mese orsono un premio Nobel per l'economia su questa distinzione tanto cara al governo Usa ed a larga parte degli analisti, una distinzione, a suo avviso, assolutamente sciocca, in quanto la genete ha la amledetta abitudine di utilizzare l'automobile più o meno sprecona e non ha ancora perso il vizio di mangiare, anche perché memore di quello che accadde a chi, nella celebre favola, ci provò.

Come ho anticipato più volte, gli unici a non aver subito le conseguenze dell’attuale crisi finanziaria sono i top manager e i manager, almeno quelli che hanno ancora un posto, in quanto la stagione dei bonus è andata benissimo a Wall Street, si vedano, soltanto a titolo di esempio, i 6661 mila dollari medi erogati dalla previdente e preveggente Goldman Sachs (ovviamente, la distribuzione è molto meno equa di quanto indichi il dato medio, in quanto si va dai 65-70 milioni di dollari attribuiti all'attuale numero uno Blankfein alle poche migliaia di dollari dell'ultimo addetto), mentre flessioni marginali si registrano per i 350 mila addetti della City londinese, che hanno comunque percepito in media bonus in sterline pari all'equivalente di qualcosa più di 27 mila euro.

Pur in presenza di un sensibile arretramento dell’euro, lo yen giapponese continua a dare segni di grande forza, il che consente alla valuta giapponese di tornare a livelli non visti da molto tempo nei confronti delle altre due principali valute e anche di quella sterlina non riesce a recuperare significativamente terreno dopo la netta flessione in corso ormai da tempo e che non è certo rafforzata dalla ormai certa previsione di un nuovo taglio dei tassi di interesse e da una situazione come quella della disastrata Northern Rock che fa ormai il paio solo con la vituperata questione della monnezza campana.
Apprendo con vero piacere che, in luogo di una notte dei lunghi coltelli, l'incontro svoltosi a Milano tra Alessandro Profumo e il duo dei presidenti siciliani, l'alquanto scredito Totò Cuffaro e il preseidente della Fondazione Banco di Sicilia, tal Puglisi, ponendo le premesse per un rinnovo della convenzione ed il connesso mantenimento dei quattro posti in CdA equamente divisi tra Fondazione e regione Sicilia, anche se resta aperta la questione della testa di Salvatore Mancuso, reo di aver violato le regole di governanca della capogruppo, anche se sembra essere in salvo il neo direttore generale, Giuseppe Lopes, mentre, come aveva peraltro proposto lo stesso Mancuso, all'altro direttore generale, il piemontese Roberto Bertola, ancdrebbe la carica di amministratore delegato.
In conclusione, si è lasciato spazio a quella saggezza e a quella moderazione che è stata la caratteristica distintiva del lungo e faticoso, peraltro non concluso, processo di concentrazione dell'industria bancaria italiana.