Da ieri, la tempesta perfetta è vigorosamente entrata nel suo ventunesimo mese di vita, senza, peraltro, avere perso un grammo della sua forza distruttiva nell’un tempo ampio e profittevole settore della finanza strutturata, il comparto su cui si sono abbattute le più alte ondate e che ha squassato le banche di investimento e le banche più o meno globali che non sono riuscite a liberarsi in tempo, e del tutto, dell’altissima montagna di titoli della più varia specie caricandoli sulle spalle dei risparmiatori/investitori di tutto il mondo.
Stando alle ultime catastrofiche stime sulle perdite finali elaborate dagli economisti dell’International Monetary Fund, ma soprattutto riferendoci all’ipotetica ripartizione del relativo carico, è, tuttavia, possibile dire che il gioco messo in atto sin dal settembre del 2006 dalla potente e molto preveggente Goldman Sachs, seguita a ruota dall’extracomunitaria UBS e, ma solo sei mesi dopo, dalle altre maggiori banche statunitensi, è riuscito in buona misura nei confronti dei cosiddetti investitori istituzionali, fondi pensione, fondi d’investimento e le maggiori compagnie di assicurazione globali, non fosse altro che tremila dei quattromila miliardi di dollari complessivi di perdite dovrebbero, alla fine della fiera, essere contabilizzati sui bilanci di queste ultime.
Pur non appartenendo alla folta schiera dei catastrofismi e dei dietrologi, non posso, tuttavia, fare a meno di sottolineare per l’ennesima volta la sospetta coincidenza della nomina dell’ex capo assoluto di Goldman a ministro del Tesoro di George W. Bush appena tre mesi prima che il Chief Financial Officer, quel David Viniar che è attualmente sotto indagine per i rimborsi miliardari effettuati da AIG in favore di Goldman e delle sue sorelle, desse l’ordine di vendere il vendibile di tutto quanto prodotto dagli apprendisti stregoni di quella che allora si fregiava ancora del titolo di Investment Bank.
In numerose puntate del Diario della crisi finanziaria, ho cercato di delineare le caratteristiche fondamentali dei sistemi creditizi prossimi venturi sia al di qua che al di là dell’Oceano Atlantico, sistemi che saranno caratterizzati, molto presumibilmente, da un numero di partecipanti ancora più ridotto dell’attuale, non più di dieci-quindici entità in tutto, ma al contempo caratterizzate da dimensioni ancora più grandi e, quindi, ancora più appartenenti alla categoria delle aziende troppo grandi per essere lasciate fallire senza tragiche conseguenze per l’ambiente economico circostante.
Ma quello che è molto più difficile capire è rappresentato dallo scenario geopolitico che emergerà dalle ceneri di quello attualmente squassato dagli alti marosi della tempesta perfetta e dalle più o meno sagge decisioni dei leaders politici in carica sia negli Stati uniti d’America che in quei cinque paesi rilevanti dell’Unione europea, una selezione forse alquanto drastica ma fermamente basata sull’aureo principio del de minimis non disputandum est!
Non che di questo non mi sia mai occupato nelle oltre 550 puntate del Diario, ma devo dire che quanto è avvenuto in margine al recente summit del G20/G21, alla riunione successiva della Alleanza Atlantica, nonché alcune dichiarazioni sparse di leaders più o meno importanti mi hanno spinto a rivedere alcune delle mie idee precedenti, una revisione in qualche modo radicale e della quale sono debitore nei confronti di tante persone con le quali mi è dato in questi mesi di confrontare le rispettive idee e opinioni, uno scambio che raramente lascia ognuno sulle proprie più o meno granitiche convinzioni, anche se, ovviamente, come si usa dire nei ringraziamenti, la responsabilità di quanto scrivo resta, comunque, assolutamente mia.
Il ‘contagio americano’ è perfettamente riuscito, in particolare nei confronti dei maggiori paesi dell’Unione europea che, al mare di titoli più o meno tossici nei bilanci delle loro principali banche e compagnie di assicurazione, devono pure temere i contraccolpi dei sempre possibili default dei new comers un tempo facenti parte dell’impero sovietico, paesi che hanno di fatto appaltato alle banche tedesche, francesi, inglesi e italiane i propri sistemi creditizi e assicurativi, in una parola, il loro sistema finanziario, una situazione quest’ultima che espone i quattro maggiori paesi dell’Unione a un rischio sistemico valutabile nell’ordine delle migliaia di miliardi di euro.
Ma la decisione del sistema federale di stampare dollari a volontà e, ovviamente, di emettere nuovi titoli rappresentativi del debito per un importo equivalente, nonché la doverosa inclusione dei bonds di Fannie Mae e Freddie Mac, i cosiddetti GSE, per oltre 5 mila miliardi di dollari, per non parlare della situazione nel cosiddetto mercato dei munibonds, potrebbero portare lo stock del debito, tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, alla stratosferica somma di 15-16 mila miliardi di dollari, un’ipotesi tutt’altro che irrealistica e che, pur in presenza di un sensibile miglioramento della bilancia commerciale a stelle e strisce, a un possibile disimpegno degli investitori esteri che porterebbe i corsi dei Treasury Bonds a livelli molto bassi e, come sostiene George Soros, spingerebbe il dollaro trade weighted a livelli oggi neppure immaginabili!
L’ipotesi che la Cina e i paesi arabi possano contrastare significativamente tale tendenza è, peraltro, del tutto irrealistica, così come lo è quella di uno scambio tra sottoscrizione del debito statunitense e aumento dell’export cinese verso gli USA, un patto del tutto irrealizzabile nell’attuale congiuntura dell’economia americana e che aprirebbe la Cina a rischi assolutamente non sostenibili.
Mi vedo quindi costretto a rivedere le previsioni sui cambi per il 2009, in quanto si profila un rischio sino ai due dollari per un euro e di un dollaro scambiato anche a meno di 75 yen, mentre, dopo l’autorevole avallo di Yamani, continuo a veder il prezzo del petrolio intorno ai 50 dollari (al valore attuale del dollaro, ovviamente) al barile!
Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog