Non intendo assolutamente tediare i miei lettori sulle diverse tecnicalità seguite in questa vera e propria campagna mediatica che ha visto mobilitate intere legioni di commentatori, analisti ed economisti una volta tanto felici di essere embedded a una operazione mossa dall’intento di dare speranza a chi l’aveva del tutto persa, un’operazione che potrebbe anche funzionare, non fosse altro che per le ingentissime risorse messe in campo da governo e sistema della riserva federale, nonché dalla composizione del tutto bipartisan dello stesso Dream Team, ma, come purtroppo spesso accade, tra il dire dei nuovi soloni e il fare dei singoli operatori dell’economia e della finanza, vi è, purtroppo per i volenterosi sognatori, il mare tuttora procelloso spazzato dai venti che accompagnano la tempesta perfetta in servizio permanente effettivo da più di venti mesi, un’avversità meteorologica che non ha voluto saperne di piegarsi, tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009, ai voleri di Obama e dei suoi più stretti consiglieri!
I dettagli della coda del diavolo frapposta dalla dura realtà economica e finanziaria nei cinque mesi e mezzo seguiti all’elezione di Obama hanno occupato pressoché integralmente le 160 puntate del Diario della crisi finanziaria pubblicate dal 5 novembre in poi, il che rende inutile che mi soffermi sui dettagli, ma, riprendendo quanto detto martedì in un lungo e appassionato discorso dedicato alle prospettive economiche dallo stesso presidente degli Stati uniti d’America, se vorrà costruire sulla roccia l’apparato finanziario e industriale del domani, dovrà prima spalare le innumerevoli tonnellate di carta straccia sulle quali sono assise le banche e le altre entità protagoniste del mercato finanziario statunitense e, purtroppo, una parte assolutamente non marginale delle stessa apparato industriale, nonché il vastissimo settore dei servizi.
Non è, tuttavia, possibile passare sotto silenzio i rischi che le stesse soluzioni prospettate dal nuovo ministro del Tesoro alla questione dello smaltimento dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata comportano non solo per i contribuenti statunitensi, ma per gli stessi equilibri finali a livello sistemico dello stesso settore finanziario che si vuole così apertamente favorire, anche perché l’oramai evidente approccio a blocchi, prima le banche, poi le compagnie di assicurazione, poi gli investitori istituzionali e via discorrendo, presenta un numero di incognite e di possibili lags temporali da rendere tutt’altro che certo il tanto agognato punto di svolta dell’economia reale, una prospettiva sulla quale i più recenti dati congiunturali hanno gettato secchiate d’acqua davvero gelida.
Come è oramai a tutti noto, la maggior parte dei governi, delle banche centrali, nonché le stesse parti sociali dei paesi maggiormente industrializzati, hanno dato credito alla scommessa americana sull’avvio pressoché certo della ripresa sin dall’avvio del 2010, se non addirittura dal quarto trimestre dell’anno in corso, il che significa che dovemmo vedere il sogno trasformarsi in realtà tra poco più di sette mesi, se non addirittura tra meno di cinque mesi, una scommessa che mi permetto sommessamente di definire quantomeno azzardata, non fosse altro che per il perdurante sciopero dagli investimenti che continua a caratterizzare l’aggregato formato da quelli che amo definire investitori/risparmiatori, mentre penso che vi è davvero poco da aspettarsi dagli investitori istituzionali.
L’altro aspetto davvero negletto in quel dell’obanomics che si riesce faticosamente a intuire al momento e rappresentato dal deciso accantonamento di ogni dibattito sulle nuove regole che dovrebbero consentire che quanto è avvenuto non si ripeta, in forma addirittura aggravata, in un futuro prossimo venturo, anche perché è sotto gli occhi di tutti il rinvio sine die di quella riedizione della conferenza di Bretton Woods dalla quale scaturì il nuovo ordine e economico mondiale dollarocentrico, un impegno che nessuno sembra ora voler rispettare!
Stupisce la scarsa attenzione dedicata dai media a quanto sta avvenendo nella maggior parte dei paesi caratterizzati da sistemi creditizi e finanziari non garantiti dai rispettivi governi, segnalo per tutte le originali richieste avanzate dalle autorità ucraine alle banche straniere presenti in quel paese, mentre poco o nulla si sa di quanto sta avvenendo in altri paesi dell’Europa dell’Est, per non parlare della inesistente attenzione dedicata ai paesi minori dell’Asia, dell’Africa, dell’America Centrale dell’America Latina.
Non voglio utilizzare questioni non attinenti legate all’instabilità politica di alcuni di questi paesi, come, a solo titolo di esempio, quanto sta avvenendo in Thailandia in questi giorni, ma quello che è certo è che la brusca frenata allo sviluppo impetuoso dei tassi di crescita del commercio internazionale, a sua volta aspetto non secondario dello sviluppo intenso di paesi di ogni dimensione delle diverse aree del mondo avrà ripercussioni tutt’altro che marginali sullo stesso assetto geopolitico del pianeta, sviluppi al momento soltanto intuibili, ma certamente forieri di conseguenze non del tutto tranquille.
Pur avendo promesso all’inizio di non spingermi in previsioni sulla data di uscita dalla recessione, penso che emerge con chiarezza da quanto scritto in queste tre puntate stia a indicare che penso che la data universalmente desiderata vada spostata di almeno un anno in avanti, un’ipotesi che, ove dovesse realizzarsi, pone una quantità di problemi non solo al di qua e al di là dell’oceano Atlantico, ma a livello assolutamente globale, che è davvero meglio rinviarla a quando avremo un maggior numero di informazioni per analizzarla serenamente.
Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo www.flipnews.org . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog