L’improvviso tonfo dei mercati azionari posti al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico che ha caratterizzato la seduta di lunedì è stata puntualmente seguita ieri mattina in Asia da una serie di vistosi segni meno che hanno influenzato anche gran parte della seduta di ieri sia in Europa che nelle prime contrattazioni sui tre principali indici statunitensi, un chiaro segno che il non calo consecutivo dei leading indicators statunitensi reso noto in apertura di ottava aveva dissolto inequivocabilmente la nuvola di ottimismo che aleggiava da qualche settimana sui mercati, anche perché sia gli operatori che gli analisti hanno davvero un disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa dopo poco meno di ventuno mesi di tempesta perfetta, una speranza che il dato del Conference Board con il suo corollario di visione negativa sugli sviluppi dell’economia a stelle e strisce nei prossimi tre-sei mesi ha istantaneamente mostrato essere poco più che una favola per i gonzi!
Non so quanto spazio i media statunitensi abbiano dedicato alle 250 pagine del rapporto dell’organismo deputato a valutare gli effetti dell’utilizzo dei 700 miliardi di dollari previsti dal TARP, un rapporto che ha espresso anche valutazioni molto critiche sul piano del nuovo ministro del Tesoro a stelle e strisce, Timothy Geithner, quello che prevede la creazioni di joint ventures tra investitori privati e lo stesso Tesoro per l’acquisizione dei titoli più o meno tossici della finanza strutturata ancora presenti in massa al di sopra e al di sotto della linea dei bilanci delle principali entità protagoniste del mercato finanziario statunitense, un modello che l’estensore del rapporto ha definito gravido di rischi molto più per il contribuente americano che per gli investitori privati, al punto da indurre questi ultimi a non fare un accurato screening dei titoli da acquistare, tabto alla fine paga lo Zio Sam.
Come non bastasse, il Fondo Monetario Internazionale non ha solo confermato l’anticipazione sulle previsioni di perdite a carico del sistema finanziario globale per 4 mila miliardi di dollari entro il 2010, le ha anzi elevate a 4,1 trilioni di dollari, ma ha per la prima volta presentato una suddivisione per aree geografiche, attribuendo perdite per 2.700 miliardi di dollari agli Stati Uniti d’America, 1.200 miliardi di dollari alle banche e altre entità finanziarie europee e poco meno di 150 miliardi a quelle giapponesi, mentre soltanto poche decine di miliardi farebbero capo a entità finanziarie basate nel resto del pianeta, una suddivisione non solo sinora inedita, ma che dimostra anche il tentativo posto in essere dalla potente e ancor più preveggente Goldman Sachs e dalle altre principali banche statunitensi di liberarsi dei titoli più tossici tra la fine del 2006 e i primi mesi del 2007 è riuscito solo in parte, al punto che ben due terzi delle perdite stimate restano a carico di un sistema finanziario statunitense che non capitalizza in borsa una cifra di queste dimensioni.
Quando e se mai saranno rese note le attribuzioni delle perdite alle singole entità finanziarie a stelle e strisce, sarà possibile vedere quanto le perdite passate e quelle prossime venture facciano in larga misura capo a un ristretto numero di banche e compagnie di assicurazione, in particolare alle sei banche principali sopravvissute agli alti marosi della tempesta perfetta e a quelle tre-quattro compagnie di assicurazione, la nazionalizzata AIG in testa, che hanno avuto la sventurata idea di porsi come controparte di gran parte dei Credit Default Swaps, quei micidiali strumenti con i quali le banche di tutto il mondo si sono assicurate contro il rischio di fallimento delle loro concorrenti!
Mentre i risparmiatori giapponesi hanno più di un motivo di tirare un sospiro di sollievo rispetto alla minore esposizione del loro sistema finanziario al rischio di ulteriori perdite, non altrettanto possono fare i loro omologhi europei, in particolare quelli in possesso di pacchetti azionari di banche britanniche o continentali gravate da perdite stimate per ben 1.200 miliardi di dollari che, almeno al cambio odierno, fanno più o meno 925 miliardi di euro.
Come era largamente prevedibile, dopo le perdite a due cifre percentuali registrate ieri da Citigroup e, in misura anche più accentuata, da quella Bank of America che aveva proprio lunedì annunciato il ritorno all’utile ma gravato da poco meno di venti miliardi di dollari tra svalutazioni di crediti e accantonamenti per fare fronte a rischi futuri, ieri vi è stato un certo recupero delle quotazioni di queste come delle altre banche, anche se i recuperi non hanno coperto neppure la metà delle perdite registrate nel corso della seduta precedente, una chiara dimostrazione del fatto che quella degli azionisti non era stata una reazione emotiva, così come non va dato troppo peso alle voci sulla presenza lunedì di orde degli oramai famigerati venditori allo scoperto, alibi spesso utilizzato da chi non vuole proprio vedere che, nonostante il passaggio dal mark to market al mark to fantasy, è sempre più difficile per le ex banche di investimento e per quelle universali a operatività più o meno globale mascherare più di tanto le evidenti difficoltà nelle quali da tempo si dibattono e che hanno portato, nonostante i forti recuperi registrati negli ultimi due mesi, le quotazioni delle loro azioni a rappresentare poco più di una frazione miserevole di quanto le stesse valevano ai tempi d’oro della finanza strutturata.
Un ben più concreto sostegno alle quotazioni delle uniche due grandi case automobilistiche a stelle e strisce quotate, Chrysler, come è noto, appartiene al fondo di private equity Cerberus, è venuto dalla nuova amministrazione statunitense che ha deciso di mettere nuovamente mano al portafoglio, erogando 5 miliardi di dollari in favore di General Motors e solo 500 milioni di dollari in favore di Chrysler, mentre non si sa se i vertici di Ford si stiano pentendo del rifiuto orgoglioso a suo tempo opposto alle profferte della Casa Bianca, un rifiuto in larga parte spiegato sia dalla relativa maggiore solidità della storica casa automobilistica statunitense, sia dalla palese insofferenza dei suoi top manager rispetto ai condizionamenti previsti dagli aiuti pubblici, con particolare riferimento a quella fastidiosissima previsione sulla compensation dei vertici aziendali.
Ricordo che il video del mio intervento al Convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente sul sito dei dell’associazione FLIP, all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog