mercoledì 15 aprile 2009

The sooner you leave the better, Mr. Bernspan!


Sarò un po’ prevenuto, ma confesso di dare davvero poco ascolto a quanto va dicendo con insolita frequenza l’unico sopravvissuto del tristemente noto trio Bush-Paulson-Bernspan, sì proprio quel Benjamin Bernanke, in arte Bernspan, che ancora non sa quanto potrà restare alla tolda di quel sistema della riserva federale che ha trasformato in meno di tre anni una sorta di stamperia semiclandestina di dollari, giurando e rigiurando che, quando sarà venuto il momento, lui stringerà con forza la cosiddetta corda del boia, rifacendo rapidamente a ritroso la strada che ha condotto pressoché a zero i tassi sui Fed Funds che alla fine di luglio del 2007 stavano ancora al livello del 5,25 per cento.

Sarà che ieri quello che un tempo era un mite professore di storia economica presso il prestigioso ateneo di Princeton, con specializzazione proprio relativa allo studio delle crisi finanziarie del passato, ha lanciato il suo messaggio di cauto ottimismo sulle prospettive dell’economia a stelle e strisce e di quella globale proprio mentre venivano diffusi due dati alquanto negativi sull’andamento dell’azienda America, il forte calo delle vendite al dettaglio e quello dei prezzi alla produzione nel mese di marzo (pari ad una flessione del -1,1 e del -1,2 per cento, rispettivamente), un qualcosa che non so proprio come possa essere confuso con quei barlumi di speranza di cui parlava anche ieri Obama nel suo ennesimo intervento sull’economia o con le previsioni in libertà del presidente, del tutto pro tempore, della Federal Reserve!

A volte mi dispiace non sentire più la voce di uno degli illustri scomparsi dalla scena, quell’Hank Paulson che non ha ancora deciso cosa farà nel suo futuro, anche perché il suo successore alla potente ma ancor più preveggente Goldman Sachs, Larry Blankfein, pare si sia accontentato, nell’orribile esercizio 2008, della misera cifra di 1,1 milioni di dollari, un centesimo circa di quanto aveva guadagnato l’anno precedente, uno stipendio che sarà pure multiplo di quanto prendeva Hank per fare il ministro del Tesoro, ma anche una cifra per la quale il nostro non ha davvero alcuna intenzione di tornare a fare l’investment banker, proprio ora che l’investment banking sta vivendo la fase più difficile mai vissuta da oltre un secolo.

In assenza delle non sempre coerenti elucubrazioni di Hank, mi sono dovuto accontentare dell’asciutto discorso con il quale il Chief Financial Officer di Goldman, David Viniar (a proposito, ma che fine ha fatto l’indagine che lo vedeva, assieme a un folto gruppo di suoi colleghi, indagato dal temibile sceriffo di New York, Andrew Cuomo?) ha illustrato i risultati della ex Investment Bank nel primo trimestre del 2009, una novità assoluta, in quanto, anche in relazione alla trasformazione in banca ordinaria, la storica banca ha abbandonato l’anno fiscale per passare a quello che inizia il 1° gennaio e finisce il 31 dicembre, a mossa probabilmente obbligata, ma che ha consentito di segnalare un profitto di 1,66 miliardi di dollari e di tagliare fuori la perdita di poco meno di un miliardo registrata nel mese di dicembre che è rimasto fuori dalla rendicontazione.

Ma la vera novità proveniente da Goldman Sachs consiste nell’emissione di nuove azioni per 5,5 miliardi di dollari, nonché il parto dell’ennesimo private equity, il quinto della serie, che, a sua volta, ha raccolto altri 5 miliardi di dollari dagli investitori che sanno bene che normalmente e in perfetta assonanza con il nome, quello che toccano i selezionatissimi partners della oramai mitica Goldman finisce invariabilmente per trasformarsi in oro, anche se devo confessare che non sono riuscito a trattenere qualche lacrima quando ho letto che, per Blankfein, Viniar e compagni, quello di restituire al più presto i 10 miliardi di dollari ricevuti direttamente da Hank rappresenta proprio un punto d’onore, anche se si sono dimenticati di indicare una data certa entro la quale manterranno un così solenne impegno!

Prima di procedere oltre, mi corre l’obbligo di indicare a Corrado Passera, Francesco Micheli, Alessandro Profumo e agli altri banchieri italiani l’esempio fornito da Larry Blankfein, che per soli 1,1 milioni di dollari, pari ieri 825 mila euro ricopre contemporaneamente la carica di Chairman e di Chief Executive Officer di una banca che, a fine marzo, sfiorava i mille miliardi di dollari di assets, un’entità che peraltro opera davvero opera all over the world, un compenso davvero frazionale rispetto anche a quello ‘autoridotto’ dei summenzionati top manager bancari italiani posti al vertice di gruppi creditizi la cui capitalizzazione di borsa, nonostante i recenti e certamente significativi recuperi, continua spesso a non superare un quarto della consistenza che vantavano prima dell’avvio della tempesta perfetta.

Va, tuttavia, detto che la morigeratezza mostrata di questi tempi dai banchieri a stelle e strisce, così come la voglia diffusa di ripagare al più quanto ricevuto dai fondi del TARP, non è del tutto disinteressata, in quanto starebbero per vedere la luce quelle joint ventures tra pubblico e privato che dovrebbero rilevare, ad un prezzo non ancora precisato ma certamente superiore a quello di mercato una consistente parte di quei titoli più o meno tossici della finanza strutturata che ancora gravano sul groppone, pardon sui bilanci, delle principali banche a stelle e strisce, una circostanza che consente di affermare che i banchieri riceveranno con la mano sinistra molto più di quanto si dichiarano disponibili a restituire con la mano destra.

Ma la restituzione di tutto o parte di quanto le banche hanno ricevuto da ottobre 2008 in poi è anche legata al fatto che adesso è giunto il momento in cui le principali compagnie di assicurazione si apprestano a ricevere generosi finanziamenti pubblici dallo stesso TARP, che, però, non dispone di grandi risorse sino a che non rientreranno a casa le centinaia di miliardi di dollari erogati in favore delle banche, uno scambio che appare peraltro essenziale, non fosse altro che per il fatto che, stando alle stime del Fondo Monetario Internazionale, sulle compagnie di assicurazione e sugli altri investitori istituzionali gravano i due terzi di quei quattromila miliardi di dollari di perdite previste!

Ricordo che il video del mio intervento al convegno della UIL sulla crisi finanziaria è presente nel sito dell’associazione FLIP all’indirizzo http://www.flipnews.org/ . Riproduzione della presente puntata possibile solo citando l’autore e l’indirizzo del blog